«Next time is next time. Now is now», afferma il protagonista di Perfect days di Wim Wenders a un certo punto del film (2023).
Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella
il Mondo non merita
la fine del mondo.
Così scrive Wislawa Szymborska nella sua poesia Vermeer (da Elogio dei sogni, trad. di Pietro Marchesani, Ed. Adelphi 2011).
Ed ecco la riproduzione del quadro Lattaia che Jan Vermeer dipinse presumibilmente tra il 1658 e il 1660 (l’opera è conservata al Rijksmuseum di Amsterdam).
Che cosa accomuna queste tre citazioni?
Io credo il tempo. La nozione di tempo e il gesto. Che sono una soluzione, io credo, all’attuale angoscia di vivere.
Nel dipinto, nella poesia, nel film, il tempo è adesso e il gesto, i gesti della vita che si esplicano all’interno dei suoi confini, è attraversato nella sua interezza, istante dopo istante, con una accettazione consapevole.
Sono gesti dai quali in questo frangente non si può prescindere: pulire i gabinetti di Tokyo (Perfect days/Wenders), scrivere poesie mentre si fa un altro mestiere per poter pagare le bollette (Vermeer/Szymborska), versare il latte in quello che presumiamo essere un impasto per un dolce (Lattaia/Vermeer). Gesti umanissimi, eseguiti con cura.
La bellezza della quotidianità?
La poesia della quotidianità?
In questi gesti, nel gesto e il suo spazio temporale, forse c’è una salvezza.
Essere noi.
Com’è liberatorio accettare di essere qui e ora quello che siamo, che stiamo facendo.
Com’è frustrante inseguire, costantemente, degli ectoplasmi e poi cadere, costantemente, nel vuoto.
Da quando ho ricominciato a vivere in un contesto urbano, da quando ho lasciato la montagna, è sempre più difficile per me essere in quello che faccio, ascoltarmi, ascoltare. E se è difficile per me che non sono una nativa digitale e ho conosciuto altre epoche, altre modalità, come può essere possibile per un bambino, nuovo al mondo, prendere le distanze dal bombardamento delle immagini in movimento, dal frastuono e dal caos mediatico?
La Lattaia di Vermeer è assorta in quello che sta facendo, esattamente come si può essere assorti in un gioco, nella contemplazione, nello sbozzare un’idea… quando si è soli con se stessi. Io so come si fa, ed è molto duro, ci vuole disciplina per non cadere nelle lusinghe che ci accerchiano. Ma un bambino che in una sala d’aspetto, in metropolitana, al ristorante, ancora nel passeggino è tenuto tranquillo con il cellulare, da grande lo saprà?
Pulire i gabinetti è considerato degradante, come se a farlo non fossero persone, ma gente che non vogliamo vedere, d’infima categoria, senza una vita propria, interessi, famiglia, tradizioni, un lungo filo che li collega ai loro avi: non sono niente a confronto con gli influencer, le star della moda, della musica, del cinema. In Perfect days, il protagonista svolge il suo lavoro e legge, pensa, agisce, guarda il tramonto sulla città con quella che in altri tempi si sarebbe detta saggezza. E coraggio.
Le immagini, il frastuono, il caos, le chat, che non lasciano margini di solitudine, anche quando si è materialmente soli, a che cosa ci stanno portando, a che mondo ci stanno consegnando con la nostra complicità? Ne parlano e ne scrivono tutti. Ma non c’è una soluzione. Proibire i cellulari, i totem del nostro tempo, fino a quattordici, sedici anni, non è la soluzione. Le proibizioni sortiscono sempre effetti contrari. E anche la proposta di «una patente, come per auto e motorini» (Massimo Gramellini, Corriere della Sera, 11/09/2024), oltreché infattibile (chi lo farebbe? con quali direttive? dove? con quali soldi?), che senso avrebbe, dal momento che i cellulari non esauriscono certo le modalità di fruizione tech a disposizione dei bambini fin dalla culla?
La soluzione non c’è. O meglio: dipende dai singoli. Gli smartphone sono utili, ci consentono di fare cose che trent’anni fa non ci sognavamo di poter fare.
Bisogna saperli usare – si dice.
Ma questo vale per tutto. Vale per il cibo, per le auto, per un coltello, per il denaro, il sesso, l’alcol… Il problema non sta nelle cose in sé, sta nella testa delle persone.
Pensare con la propria testa, con onestà. Non lasciarsi distrarre dalle vie facili, tutte uguali, noiosamente uguali: i soldi che possono tutto.
È questo il punto, secondo me.
I soldi servono, ma non ci serve diventare schiavi delle lusinghe di chi si arricchisce sulle nostre frustrazioni, facendoci intravedere un futuro illusorio, un domani che ci renderà felici, ma solo se, a patto che… E sono proprio quel “se” e quel “a patto che” la nota stonata.
A me piacciono le storie delle persone che non si adeguano. E non adeguandosi, stanno nel loro gesto, concentrate, qui e ora.
Mi conforta tenere a mente una frase del protagonista di Perfect days: «The world is made up of many worlds». Finché continueranno a esistere altri mondi, «il Mondo non merita [ancora ndr] la fine del mondo».
NB Cover: Barnett Newman, Cathedra, 1951.