Sono confusa. Sarà che sono sempre stata una che riesce a trovare più domande che risposte, ma da qualunque parte la consideri, questa faccenda del Covid19, non ci capisco granché. Chiusa in casa, la terapia intensiva diventa un non-luogo e la morte officiata quotidianamente in TV sembra un film. Le bare di Bergamo e Brescia, tutte uguali, tutte ben allineate, sono irreali. Sul “mentre” e sul “dopo” ciascuno dice la sua: un bailamme di teorie economiche e sociali, e cifre: un sacco di numeri, un sacco di pro e contro, che anche a passarci la giornata, con tutta la buona volontà non riesco a venirne a capo.
E poi c’è questa storia del «niente sarà più come prima», un cambiamento dato per certo a cominciare dai vertici. Ma che non si capisce bene a cosa si riferisca esattamente. Perché ognuno, anche in questo caso, dà una sua interpretazione.
Qualche giorno fa, Massimo Gramellini scriveva sul Corriere che se tutte le disgrazie capitate nel corso della storia ci avessero fatto cambiare in meglio, a quest’ora noi umani dovremmo essere tutti dei santi.
Pessimista o realista?
Personalmente propendo per la seconda ipotesi. Personalmente dubito che noi umani cambieremo in meglio. Dopo “questa” pandemia.
È difficile dire quali pensieri mi attraversano in questi giorni di reclusione che hanno ormai doppiato il mese. Probabilmente sono gli stessi pensieri che avevo anche prima.
Io il lavoro da ghost writer, quello che mi dava da sopravvivere, con la crisi dell’editoria e tutti i tagli che ci sono stati – perché prima della pandemia abbiamo avuto un buon decennio di crisi, no? – io la mia esigua fonte di reddito l’avevo già persa due anni fa.
[Eh no, perché anche se adesso non fate che parlare di imminente catastrofe economica, lo scempio che del lavoro e dei diritti dei lavoratori è stato fatto in questi ultimi vent’anni, passo dopo passo, non è che me lo potete passare sotto silenzio con la scusa del Coronavirus che tutti ci unisce… Eh no!]
Per me perdere il mio piccolo lavoro supertassato a Partita IVA è stata solo l’ultima svolta. Prima ce ne sono state altre.
Come trasferirmi in una frazioncina isolata sull’Appennino ligure, in una vecchia casa distante cinquanta chilometri dalla prima città: Piacenza. E tutto per risparmiare sulle spese, perché Milano, con gli introiti sempre più bassi e sempre più insicuri che riuscivo a mettermi in tasca, era diventata impossibile.
La vita mi si è ribaltata, in tutti i sensi. Ho dovuto imparare a fare di necessità virtù. Ogni giorno.
Soprattutto, e questa è stata la parte più dura, ho dovuto imparare a convivere con il senso di sconfitta e vergogna che gli “altri” attribuiscono alla “tua” povertà.
Ho cominciato a guardarlo da fuori, questo mondo tutto spot, senza essere più capace e avere voglia di prendervi parte. Ho dovuto rimettere in discussione tutto per poter trovare un punto fermo. E alla fine l’ho trovato: da ben prima del Covid19 so che di punti fermi non ce ne sono.
Quando mi capitano sotto gli occhi le “Cronache del Coronavirus” sui social, quel mondo che già prima non capivo, oggi lo capisco ancora meno. I cretini sono rimasti tali. Gli incazzosi si incazzano come sempre. I buonisti postano video di varia solidarietà. Gli artisti pubblicano i loro seicento lavori al giorno, ma aggiornati “ai tempi del colera”. C’è poi chi si sente in dovere di informare l’universo mondo circa la sua riscoperta della vita domestica – com’è bello fare gli gnocchi – e chi, come sempre, comunque sia, mette la foto del cane.
Io non sono credente, ma nel vuoto di identità che ho attraversato in questi anni, mi sono chiesta tante volte il senso della vita. Mi sono fatta tante domande. Che sono rimaste quasi sempre, quasi tutte, senza risposta. Ma me le sono fatte comunque. E me le faccio ancora. Perché quando perdi il lavoro, e di conseguenza il tuo “posto” nella società, non c’è più alcuna illusione, nessun “io sono” che ti possa distrarre e salvare dal vuoto. Dalla paura del futuro.
Così le domande arrivano.
Mi confronto con il tempo che passa, con la fragilità della vita. Da ben prima della pandemia.
Mia madre ora vive in una casa di riposo. Di questi tempi è normale, no? O badante oppure casa di riposo. E penso a me, mi identifico con lei. Se non hai più un posto nella società, qualche volta ti chiedi: che cosa ne sarà di me?
Poi passa. Perché pensi a quelli che stanno peggio, molto peggio. Per esempio i profughi ammassati alle frontiere con la Turchia, o l’attivista Patrick Zaky, incarcerato in Egitto per le sue idee, passati improvvisamente a notiziola a piè di pagina. A volte neanche quella.
I vecchi comunque, anche se adesso sono diventati «i nostri cari nonni» da proteggere, non li vuole nessuno, sono un di più. Il report quotidiano sul Covid19 del capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, e dei diversi esperti che lo affiancano si conclude spesso con il computo dell’età media dei deceduti: la stragrande maggioranza sono «anziani con patologie correlate».
Come se l’essere anziani con patologie correlate significasse avere meno voglia di vivere – penso.
Tutto questo mi riporta alla trama di un libro di Doris Lessing che lessi molti anni fa, molto giovane. Ne vidi anche la meravigliosa riduzione teatrale di Judith Malina al Leoncavallo di Milano. Il libro era Il diario di Jane Somers. Mi colpì moltissimo. Perché la vecchiaia che veniva raccontata dalla Lessing faceva paura, orrore. Come la morte. Ma alla fine qualcosa insegnava. A vivere, forse. E forse anche a morire.
È un libro, Il diario di Jane Somers, che ora capisco interamente. Sarà perché adesso ho l’età e l’esperienza giuste per sapere. Dove sapere non significa avere una spiegazione. Significa solo che sono passata attraverso l’esperienza della nascita, della vecchiaia, della malattia e qualche volta della morte delle persone a cui voglio e ho voluto bene. Lavare il corpo delle mie figlie neonate e lavare il corpo di mia madre sono due esperienze completamente diverse, ma che hanno appartenuto entrambe alla mia vita. Legate da un filo. Di cui a un certo punto passerò il capo.
Sono confusa, più confusa di prima. Perché se già prima del Covid19 tante velleità non le avevo più, e questo mi faceva sentire estranea a quasi tutto e tutti, adesso mi sento proprio sbagliata. Le cantate sui balconi, passato il primo momento di commozione (liberté, égalité, fraternité), mi infastidiscono. Non sono per niente convinta che questa stessa gente, a fine pandemia, sarà disposta a riflettere seriamente sui modelli di sviluppo economico e sociale che hanno prodotto roba del tipo Amazon e Netflix, «così comodi in questi giorni di carcerazione coatta». Certo, «andrà tutto bene». Ma per chi?
Tutto quello in cui avevo creduto da ragazza – tutte le mie battaglie per […] – si è dissolto in una bolla di sapone. Nonostante allora fossimo molto, molto più motivati di adesso. Allora… Negli anni Ottanta.
E oggi?
Come mi dice un’amica, oggi, col Covid19, per poter vivere bisogna fissare dei paletti.
Così sì, la mattina faccio stretching, qualche posizione yoga. Poi pulisco, lavoro in giardino. Se serve, esco a fare spesa. Mi costringo a cucinare, a curare l’alimentazione «per rafforzare il sistema immunitario». Leggo, ascolto musica, vedo qualche film. […] Provo perfino a mettere in piedi qualche progetto per “dopo”…
E chiamo mia madre. E chiamo le mie figlie. E scrivo agli amici su whatsapp…
E la giornata passa.
Che sia questo il senso della vita?
P.S. In copertina: © Mark Rothko.