La pittura alchemica di Marco Tracanelli

L’incontro con un artista è un viaggio. Puoi incontrare prima lui o il suo lavoro, fa lo stesso: il punto di partenza lo conosci, dove arriverai non puoi, invece, prevederlo. Perché il viaggio continua anche quando l’intervista è finita e nei giorni seguenti ci rifletti. Quando poi ti siedi di fronte allo schermo del PC per scrivere, capisci una cosa che dovrebbe essere naturale: non sei tu, è l’artista che ti sta interrogando, sono le sue opere.

Marco Tracanelli, 1956, San Vito al Tagliamento (PN).

Talvolta sono così.

Formazione

Ho disegnato e dipinto fin da bambino, ma i miei avevano una impresa edile. Ci lavorava mio nonno, ci lavoravano mio padre e mio zio, quindi mi sono iscritto a Geometri a Udine, perché mi figuravo un futuro da impresario edile pure io, nell’azienda di famiglia. Passavo molto tempo con gli operai. Ho cominciato con l’imparare a raddrizzare i chiodi, facevo la malta… Nel tempo ho sviluppato una buona manualità. Vivevo in mezzo a questa gente povera, con tanti figli, che si faceva le sigarette a mano per risparmiare. Da loro imparavo soprattutto una umanità che è una forma di cultura molto profonda. A un certo punto della mia vita, però, è cambiato tutto. È stata la prima svolta: i miei genitori si sono separati, mio padre è andato via di casa. Per mia madre e per noi figli sono cominciati anni difficili, anche dal punto di vista economico. Il futuro che avevo in mente è sfumato. Dopo il diploma sono andato in fabbrica, facevamo fialette in vetro per l’industria farmaceutica. Si lavorava a turni, era dura, ma l’ambiente non mi dispiaceva – erano gli anni Settanta, anni di lotte sindacali, di entusiasmo. Allora ero un militante anarchico, dipingevo, leggevo molto. In fabbrica ci sono rimasto quattro anni, poi mi sono licenziato, sono andato a fare l’idraulico. La decisione radicale di mollare tutto e di iscrivermi all’Università è venuta poco più tardi, a seguito di un incidente stradale, tragico, durante una trasferta di lavoro: avevo ventisei anni, la persona che mi sedeva accanto è morta e io quasi. Durante quel lungo anno dentro e fuori dall’ospedale, durante quella lunga convalescenza ho capito che quello di cui avevo bisogno era di aprirmi ad altri mondi, trovare un metodo di indagine. Filosofia a Padova l’ho scelta per questo motivo. Avrei potuto andare all’Accademia, ma dipingevo da anni, avevo sperimentato tante tecniche… Da studente mi sono mantenuto all’americana facendo tutti i lavoretti che mi capitavano, dal lavaggio auto al montaggio di perline. Alla fine mi sono laureato con una tesi sull’Estetica del Futurismo. Tra le esperienze del periodo dell’Università rientra anche la scoperta di una errata datazione di un quadro di Boccioni. Prima si pensava che Officine a Porta Romana fosse del 1908. Verosimilmente, secondo me, doveva invece essere del 1909-1910. Oggi la data ufficiale del quadro è quella che ho proposto io: 1909.

Umberto Boccioni, Officine a Porta Romana, 1909, olio su tela, 75 x 145 cm. Collezione IntesaBci, Milano.

Luce

La luce è invisibile, la luce rappresenta il modo in cui vediamo le cose. Il primo artista che ho studiato a fondo, e di cui ho fatto anche delle copie, è stato infatti Caravaggio. Dopo ci sono stati parecchi anni di intensa ricerca: il Futurismo, appunto, e la passione per i surrealisti, la pittura metafisica. A quell’epoca dipingevo in uno stile che era una via di mezzo tra l’Espressionismo e il Surrealismo. Con Vermeer, ma diverso tempo dopo, sono tornato al punto di partenza: alla luce, a studiarne le ombre… Che poi è quello che faccio tuttora, il mio lavoro.

Paesaggio dell’animo.

Il Cavaliere Azzurro

Questo ciclo di undici opere del Cavaliere Azzurro l’ho dipinto negli anni Ottanta. L’11 è sempre stato un numero molto importante nella mia vita, tanto nel bene quanto nel male. Anche nel Futurismo… Il carattere magico-esoterico del Futurismo non è così conosciuto, ma c’è, esiste. Se vai ad approfondire ti accorgi, per esempio, che le “tavole parolibere” di Marinetti sono anche tavole magiche – a questo ho dedicato uno studio specifico. Comunque sì, per tornare al tema, il rapporto del mio Cavaliere Azzurro con Kandinskij è più limitato di quanto non sembri. Il titolo è una citazione del Movimento Der Blaue Reiter, ma l’opera è, nel suo insieme, un percorso di autoesplorazione, un viaggio di crescita della persona, un viaggio alchemico. Il Cavaliere compie un itinerario circolare a tappe: parte e ritorna gravido di conoscenza. Non sono credente, ma percepisco una spiritualità che è in tutto il creato. I dipinti sacri che ho realizzato si basano su questa convinzione.

Il ritorno del Cavaliere Azzurro.

Arte

L’arte è l’espressione di un concetto in una forma originale. Una opera d’arte deve essere immediatamente riconoscibile, che ti piaccia o non ti piaccia. Dopo Duchamp l’arte ha preso un’altra strada, ma l’arte deve esprimere qualcosa. Il secchio con l’acqua e l’immondizia per me non è arte. Cos’è l’originalità? Per me l’originalità è l’espressione di un concetto in una maniera che ti appartiene e al tempo stesso che usa una forma che appartiene solo a quell’opera, anche se oggi il “nuovo” è impossibile. A ogni buon conto, l’opera d’arte non può essere tradotta in nessun altro linguaggio. Non puoi spiegarla, perché se hai bisogno di spiegarla è finita.

Deposizione.

Muri Vecchi e Paesaggi dell’Animo

I Muri Vecchi, lavori che risalgono agli anni Ottanta e Novanta, sono l’espressione di quella cultura popolare, anche ironica, che ho respirato fin da ragazzo. Con le esperienze della vita, col tempo, questi muri si sono trasformati, sono diventati Paesaggi dell’animo. Ai miei fondi mossi non rinuncio, ma adesso sono in una fase in cui voglio ridurre tutto all’essenziale, trovare una forma di espressione perfetta con pochi segni, sempre meno. Dire tutto con poco, arrivare alla pura essenza, è difficile, difficilissimo. Devo fare ancora parecchi quadri, che forse si ripetono un po’… Chissà, magari alla fine, se riuscirò a raggiungere il mio scopo, smetterò di dipingere. Per ora, quando finisco un quadro, dentro ci vedo troppe più cose di quelle che avevo in mente.

Muri Vecchi.

Tecniche

Mi sono formato indagando materie e colori senza pregiudizi. Ho usato tempera, acrilico, smalti sintetici. Adesso utilizzo prevalentemente l’olio, anche perché lavoro molto sulle velature. Tolgo e metto, tolgo e metto, finché del colore resta solo una traccia. Dedico molto tempo alla preparazione dei fondi. Normalmente adopero una imprimitura che faccio con il classico impasto di gesso di Bologna, colla animale e olio di lino, e dopo averla stesa sulla tela, in base al risultato – che in parte sai qual è in parte no – qualche volta mi capita di dover rivedere il progetto da cui ero partito. Intenzionalità e casualità vanno assieme, ma assecondare la tela è importante. Anche i limiti sono importanti. Io, quando non ce li ho, a volte me li metto. Adesso posso permettermi di comprare i colori che voglio, ma saper sfruttare quello che si ha a disposizione è una qualità. Tante volte mi chiedono perché il ciclo del Cavaliere sia azzurro: avevo a disposizione, gratis, un sacco di smalto azzurro e delle lamine di rame… In questo periodo, per esempio, e in particolare per la serie dei Fiori recisi, sto usando tele non intelaiate, di recupero, tele di sacco. Per quanto riguarda la tavolozza, è vero: non ne uso mai troppa. Per come la vedo io, una tavolozza troppo ricca indica una mancanza di chiarezza. Non fa per me.

Fiore reciso.

Atelier

Preferisco tenere casa e lavoro separati. L’atelier ha una bellissima luce e, a meno di non avere dei colori già pronti, da finire, cerco di dipingere il più possibile con la luce naturale.

L’atelier.

Rosso

Sì, il rosso è un colore che metto quasi sempre nei miei quadri, magari un accenno. Potrei dire che è quasi una firma. Terra d’ambra, rosso di cadmio, rosso magenta… Per me è il colore del sangue, cioè della morte e della vita insieme, e della malinconia.

 

Vivere d’arte?

Fare il pittore di professione era ed è rischioso, il più delle volte ti ritrovi a non essere libero di scegliere e, secondo me, è sempre meglio non dipendere dal mercato. È veramente molto, molto difficile trovare delle gallerie che ti rappresentino. Negli anni le ho anche trovate, ma mi proponevano contratti capestro: un numero spropositato di quadri l’anno. Come avrei fatto a farli? E comunque me ne sarei vergognato. Per questa ragione ho scelto la scuola, l’insegnamento. Insegno italiano in una scuola media. Con la Galleria Orler, la sede di San Martino di Castrozza, ho da poco trovato un accordo, ma sono libero di vendere anche privatamente purché, naturalmente, in modo corretto, cioè a prezzi non inferiori ai loro. È anche per questo motivo, per il rapporto con la Galleria, che sono sui social. Mi hanno spiegato che oggi come oggi, se vuoi esserci, devi avere una “vetrina”. La cosa non mi dà per niente fastidio: io sono uno di quei pittori, infatti, che pensa che i quadri devono essere venduti.

Paesaggio dell’animo.

Le Bambine

Sono maliziose, inquietanti, cattive. Infliggono alle loro bambole ogni sorta di violenza, ma la verità è che sono loro le prime a essere violate. Quando le persone le guardano, ne restano imbarazzate: queste Bambine che ci mettono a confronto con i nostri tabù sono un pericolo. Ne vendo poche, di Bambine, però continuo a dipingerle. La più cattiva di tutte me l’ha comprata un collezionista di Anversa. L’aveva vista sul catalogo di una mostra che avevo fatto alla Galleria Comunale di Arte Contemporanea “Ai Molini” di Portogruaro. Mi ha contattato, è venuto qui e me l’ha pagata quello che gli ho chiesto senza neanche trattare. Perché dipingo bambine e non bambini? So bene che in questa società anche i bambini sono strumentalizzati… Credo che questa mia scelta dipenda dal fatto che le figure femminili mi interessano di più. E poi c’è da dire che le figure femminili si prestano maggiormente a suscitare il disagio che voglio. Le Bambine, in questo senso, sono una dimostrazione lampante.

Bambina con bambola (Collezione privata).

Mercato

La crisi è forte anche in questo settore, la sento anch’io. I miei clienti hanno generalmente una buona disponibilità economica, sono persone di cultura che amano l’arte, però non comprano più come prima. Non credo si tratti di un problema di soldi, penso piuttosto a un senso di insicurezza. Certo, le mostre sono occasioni per vendere. Personalmente non le faccio solo per questo, ma le faccio “anche” per questo.

Paesaggio dell’animo.

Il Quarto Stato

Ne ho dipinto tre versioni perché le prime due non mi avevano completamente soddisfatto. Questa tela si rifà ovviamente al famoso quadro di Pellizza da Volpedo, reinterpretato alla luce di un romanzo che mi ha particolarmente colpito: Cecità di José Saramago. Gli automi che avanzano sono completamente ciechi. A mano a mano che procedevo coi rifacimenti, sentivo la necessità di ridurre la tavolozza, di farla sempre più uniforme. Alla fine dalla massa emergono soltanto alcune identità, evidenziate con pochi tocchi di colore. Chiudere gli occhi per non vedere, per non soffrire, oppure tenerli aperti, spalancati, per decidere, per scegliere?

Il Quarto Stato.

Letteratura

Credo che la letteratura entri nei miei lavori inconsciamente. Ho sempre letto tanto. Da giovane i classici francesi, russi, le opere complete. Negli ultimi anni ho approfondito di più la letteratura giapponese. Mi piace Murakami, di Mishima penso di avere letto tutto quanto. In queste mie letture ritrovo la stessa urgenza di essenzialità che sento in pittura. Interiorizzo e mi interrogo su tante questioni… Certe volte al punto da attraversare delle vere e proprie crisi.

Milieu

Mi sento un po’ ai margini, un po’ diverso, questo fin dai tempi dell’Università. La militanza politica giovanile ha sicuramente influito molto sul mio lavoro – ho fatto diversi murales, sculture (Io sono illegale) – ma come artista, quando ho iniziato, ero completamente isolato. All’epoca frequentavo soltanto alcuni pittori che si riunivano qui, a San Vito al Tagliamento. Loro erano la vecchia sinistra che aveva visto la guerra. A San Vito c’era una buona tradizione pittorica, ci si scambiava opinioni, consigli tecnici. Successivamente mi sono molto legato a Toni Zuccheri, figlio di Luigi, pittore famoso. Anche Toni era un bravissimo pittore… Che poi ha preferito iscriversi, però, ad Architettura e dedicarsi al design di oggetti in vetro… Con grande successo, perché ha fatto mostre in tutto il mondo. Adesso frequento il figlio Beppo, la terza generazione di questa famiglia di artisti.

Fiore reciso.

Tempo

Ho bisogno di pause. Per me, solo se supera il tempo, un lavoro ha senso, è valido. Non credo nell’ispirazione, l’artista non crea nulla. L’artista produce, trasforma la materia. Saper vedere e innescare questo processo: per farlo, io prima ho bisogno di fermarmi.

Bambina con bambola.

P.S.

Quello che il Cavaliere ha scritto di sé al ritorno dal suo viaggio. Prima di ripartire

La mia pittura oscilla in sospeso tra figurazione ed astrazione impigliandosi in una materia densa e screpolata dove si annida la sua inattualità.

 

 

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