Terminata l’ultima pagina, ci sono libri che ti porti dietro. Sono quei libri che più che rispondere, interrogano il lettore sulla complessità della vita. Che però lo mettono all’angolo. Perché cercare risposte nel chiaroscuro delle singole vicende umane è spesso impossibile. Onestà intellettuale, sensibilità, e anche pietas, non bastano. Talora è saggio fermarsi semplicemente ad ascoltare la storia che ci viene narrata, perché racconta di vite altre che si muovono intorno a noi, delle quali poco o niente sappiamo e dalle quali siamo tentati di prendere a torto le distanze.
L’ultimo romanzo di Simone Cerlini, L’ora muta (AlterEgo Edizioni, 2021), appartiene proprio a questa sparuta schiera di romanzi interroganti. Testimoni del nostro tempo. Che non hanno paura di misurarsi con la realtà pur senza tradire la letteratura. Romanzi sporchi, impietosi. Carne viva.
Ben sapendo che ogni libro, una volta pubblicato, cammina sulle proprie gambe, prestandosi a tante interpretazioni quanti sono i suoi lettori, ho voluto dialogare direttamente con Simone Cerlini seguendo il filo di alcuni interrogativi che L’ora muta mi ha suscitato. Alla fine della nostra chiacchierata, ho desiderato rileggere il romanzo. Per scoprire cosa? Altri passaggi del racconto, finezze della scrittura, rispecchiamenti e catarsi a cui qualsiasi recensione o intervista non può rendere compiutamente merito.
Il mondo del lavoro è al contempo sfondo e coprotagonista del tuo romanzo. “L’ora muta” mostra infatti come il lavoro determini la vita di tutti i tuoi personaggi. Quello che mi ha interessato in modo particolare è che hai scelto di raccontare la parabola discendente di una azienda tessile non soltanto dal punto di vista delle proteste operaie, ma anche e soprattutto i retroscena a livello apicale: i dirigenti, le loro strategie, le dinamiche relazionali, quella commistione di ambizioni, vicende personali e devozione al “bene dell’azienda” davvero poco indagata dalla nostra letteratura.
Alcuni autori che nei loro romanzi parlano anche di lavoro, che descrivono i loro personaggi concretamente, per il mestiere che fanno, nel panorama della letteratura italiana esistono. Penso a Vitaliano Trevisan, Giorgio Falco, Angelo Ferracuti, Saverio Fattori… Allo stesso Sandro Campani, che mi piace moltissimo. Nel suo Il giro del miele [Einaudi, 2017. Ndr] il protagonista è, per esempio, un apicoltore. A parte, però, poche eccezioni, nei romanzi di casa nostra della gente che lavora si parla poco, e superficialmente, come se il lavoro fosse inessenziale. Il lavoro è invece una dimensione fondamentale della nostra vita. Anche quando non ce l’hai o lo perdi, ovviamente, perché condiziona quasi tutte, se non tutte, le nostre scelte. Teresa Ciabatti, per esempio, anche lei parla di lavoro, ma il mestiere della sua protagonista è quello della scrittrice di successo [Sembrava bellezza, Mondadori, 2021. Ndr] . I pochi lavori descritti nei libri sono generalmente occupazioni che permettono di continuare a ricercare, di seguire i propri interessi. In gran parte della letteratura pubblicata in Italia sembra che a contare sia sempre altro da quello che fai per mantenerti. Sono appunto lo studio, le relazioni sentimentali… Ma se ci pensi, su sessanta milioni di italiani ci sono oggi ventitré milioni di occupati per i quali la giornata lavorativa è un gorgo che succhia moltissime energie. Credo sia ora di far camminare il mondo, anche quello della letteratura, sui piedi, perché non esiste soltanto la testa.
Mi ha incuriosito parecchio affacciarmi, attraverso il tuo romanzo, alle stanze dei bottoni, seguire le vicende di Camilla Doveri, di Moira Fontanesi, dello stesso Giorgio, il padre di Camilla. Mi chiedevo: funziona davvero così, che cos’è questa specie di inferno?
Mi interessava raccontare l’ambivalenza del lavoro. Se il lavoro può essere gratificante a qualsiasi livello, rischia tuttavia di diventare un oppiaceo capace di creare dipendenza. Sul “bene dell’azienda” si plasmano relazioni molto rischiose, che comportano compromessi e un “commercio” continuo. L’esperienza di Camilla, la protagonista de L’ora muta, non è per nulla eccentrica, accade continuamente. Cioè in azienda accade continuamente di correre il rischio di perdere la propria identità: poco, tanto o del tutto.
Il trait d’union del romanzo è appunto Camilla. Ma a parte suo padre Giorgio, anche gli altri personaggi che metti in scena sono tutte donne. Come mai?
Nella mia esperienza professionale [Simone Cerlini è un policy advisor. Si occupa di politiche attive del lavoro e di formazione. Ndr] ho constatato che esistono due mondi del lavoro, quello degli uomini e quello delle donne. Volevo raccontare l’esperienza delle donne, il progressivo scendere a compromessi dei miei personaggi femminili fino alla degradazione. Volevo indagare e mostrare la relazione di potere di una donna nei confronti di un’altra donna, una relazione di potere che passa attraverso il corpo. Spesso, nelle aziende italiane che conosco, le manager che fanno ricerca, selezione e ricollocazione delle risorse sono donne. Per la mia attività ne ho incontrate e ne incontro molte. Ho potuto quindi osservare modelli reali, che ho poi elaborato con quel tipo di lavoro di trasformazione degli eventi, che Vargas LIosa definisce «travestimento».
Moira Fontanesi, manager feroce, è dunque un personaggio che, pur nel travestimento letterario, possiamo considerare “reale”? L’azienda è quindi una specie di “recinto” dove l’essere uomo o donna non fa alcuna differenza?
Nel mondo del lavoro le differenze di genere non esistono. Moira Fontanesi fa quello che farebbe un uomo, e questo perché le regole sono le regole del lavoro. Queste, e non altre. E se tu vuoi stare dentro il “recinto” del lavoro, come lo hai chiamato tu, devi stare al gioco, alle regole del gioco. Le differenze tra uomo e donna le ho viste più che altro in relazione alle diverse opportunità di carriera. Le ho viste, e in questo caso a prescindere dal sesso, in merito alle modalità di scalata dei ruoli. Ho visto fare di tutto pur di salire. Si ricorre ai genitori influenti, ai legami nel passato accademico… A tutto quello che può essere utile al raggiungimento dei propri obiettivi. La meritocrazia? Nel trattare il merito riscontro sicuramente delle differenze tra noi, qui in Italia, e i paesi nordeuropei o statunitensi, o la Francia stessa. Anche se poi resto perplesso quando magari i tedeschi si comprano delle aziende nel nostro paese e sostituiscono il personale locale con il loro. Mi sembra che in questo caso la tanto decantata meritocrazia estera traballi. Per tornare al personaggio di Moira, lei ha scalato le posizioni di comando perché è brava. Certo, ha dovuto fare anche molti compromessi.
Se la trama del romanzo è complessa, fitta di nuclei narrativi – come di fatto è la vita, vorrei dire – anche l’architettura del romanzo non è da meno…
L’ora muta ha avuto una evoluzione molto lenta. Dieci anni e dieci stesure, molto diverse tra loro. La complessità della trama richiedeva di accompagnare il lettore all’interno delle molteplici linee narrative mantenendone vivo l’interesse in una “dinamica di voltapagina” fondamentale a prescindere dagli argomenti trattati. Inoltre bisognava arrivare a chiudere il cerchio, alla fine, in modo coerente. Con Francesco Aloe [di AlterEgo. Ndr], che mi ha seguito in questo progetto, a un certo punto abbiamo pensato a una struttura narrativa che potesse fungere da “segnapassi” per il lettore. Le quattrocento pagine del romanzo sono quindi strutturate secondo una scansione temporale, per stagioni, che a partire dal Prologo, nel 1985, arriva fino alla primavera 2018. Abbiamo poi voluto inserire un capitolo centrale, di impianto teatrale, che ci ha permesso di costruire quadri visivi come se la vicenda fosse governata da un regista. Infine l’inserto di cronaca: l’intervista finale. Nella storia della letteratura gli espedienti di costruzione di un romanzo non si contano. Per restare agli ultimi anni, mi viene in mente adesso Purity di Jonathan Franzen [Einaudi, 2015], dove l’inserto mi sembra un memoir di uno dei personaggi.
Un altro tema del romanzo che ho trovato interessante è il rapporto tra Camilla e Giorgio, cioè il rapporto padre-figlia. È un rapporto fatto più di silenzi che di parole. Un rapporto viscerale, di complicità muta, di tenerezza che resta tale anche quando i due sembrano non capirsi.
Il rapporto tra Giorgio e Camilla è un punto chiave della narrazione. È quella luce che volevo ci fosse in un romanzo che tutto sommato resta cupo, buio. Il personaggio di Camilla presenta caratteristiche borderline non tanto in senso stretto, quanto in senso letterario. Cresce con Giorgio – sua madre se ne è andata quando lei era piccola – finché anche il padre non decide di lasciarle la casa in città per ritirarsi in una piccola località di mare. Dopo un passato da dirigente, Giorgio è stato infatti estromesso dall’azienda dove lavorava e sostituito proprio dalla sua amante, Moira Fontanesi.
La decisione di Giorgio di lasciarsi tutto alle spalle, di andare a fare il cameriere stagionale, in fondo ho potuto comprenderla. Le sue decisioni riguardo al futuro di Camilla mi hanno invece fatto riflettere parecchio. Non voglio svelare altri dettagli della trama, ma sono rimasta colpita dal fatto che questo padre, conosciuto l’inferno aziendale, abbia tramato, diciamo così, per aprirne le porte alla figlia. Perché?
Diciamo intanto che la figura di Giorgio, per le scelte che fa, è quella di un antieroe. Per quanto riguarda sua figlia, lui sa perfettamente che l’azienda che l’ha fatto fuori e nella quale Camilla entrerà dopo la laurea è un inferno. Tuttavia decide di affrontare il rischio educativo. Lascia a sua figlia la libertà di scegliere.
Altro tema del romanzo è quello dell’assenza. L’assenza di Aida, la madre di Camilla, e l’assenza di identità dei migranti di prima generazione, quelli che non sono arrivati nel nostro paese sui barconi, ma forniti di documenti fittizi dallo stato italiano. In un paese come il nostro, dove si tende a dimenticare quello che è successo appena l’altro ieri, ho trovato significativo oltre che, purtroppo, di triste attualità, l’inserimento del personaggio di Aida, la cui storia è svelata soltanto alla fine del romanzo da quel dato di cronaca che è l’intervista finale.
Quando ho deciso di scrivere questo libro, nel 2010, mi sembrava di cogliere una linea di continuità tra quello che stava succedendo qui da noi e quello che accadeva sulla riva Sud del Mediterraneo. Per questo ho anche fatto diverse ricerche, documentandomi su quanto era avvenuto nel corso degli anni Novanta del secolo scorso e poi nel primo decennio di questo ventunesimo. Aida, la madre di Camilla, è palestinese. In Italia si chiama Aida perché questo è il nome che le autorità italiane le hanno assegnato nei documenti, ma la sua vera identità è un’altra.
Torno ancora un momento alla scrittura del tuo romanzo. Personalmente ho apprezzato il mix di stili che lo caratterizza e, contrariamente al mio solito, anche l’uso delle metafore.
L’ora muta è un libro molto lavorato. Tagli e controtagli. Con Gabriele Ludovici [di AlterEgo. Ndr] ci siamo focalizzati veramente molto sulla pulizia della scrittura. L’uso di tante metafore è forse inconsapevole, mentre è consapevole la scelta di non appiattirmi sul minimalismo. Credo di avere una predilezione per quel particolare tipo di metafora che è la sinestesia, una figura che associa a sensazioni attributi di un senso diverso. Con la sinestesia, di cui probabilmente tendo ad abusare, mi sembra che dalla pagina la sensibilità arrivi più vivida.
A posteriori: un punto debole de “L’ora muta”?
Forse la parte che abbiamo intitolato La nostra speranza migliore. È un capitolo che sembra staccarsi dal resto.
Io l’ho trovato invece azzeccato. Un ennesimo cambio di registro, filmico direi. Che potrebbe perfino essere un sogno.
L’ora muta non voleva essere, e di fatto non è, un romanzo naturalista. Si fluttua tra la realtà di certi dati locali che diventano universali e una sorta di irrealtà, che forse rappresenta proprio un sogno: quello che vorremmo accadesse.
Un’ultima domanda. Che senso ha scrivere romanzi oggi?
È una bella domanda. Di certo non si scrive per i soldi, perché a scrivere romanzi non si campa. C’è sicuramente un elemento di narcisismo, il segreto piacere di vedersi pubblicati. Per me scrivere narrativa ha comunque senso, è importante, per lasciare una testimonianza del mondo, del mio mondo, che è quello del lavoro. Ne L’ora muta c’è il lavoro che fu, quello delle grandi aziende emiliane del tessile e dell’abbigliamento. Le fabbriche di Carpi, di Soliera… Tutte sparite. Sono culture e sottoculture che conosco per esserci cresciuto in mezzo, la cui memoria da noi è ancora molto viva. Fino a quando, però? È un patrimonio che rischia di andare completamente perduto.
Simone Cerlini è nato nel 1972. Vive a Reggio Emilia e lavora a Milano. Al suo attivo ha numerose pubblicazioni, non soltanto di narrativa. Per saperne di più: simonecerlini.it