Mi arrovello da settimane. Come siamo arrivati a questo punto? Provo a spiegarmi. Lavoro in una scuola superiore, un istituto professionale. Dopo un post-Covid di supplenze, ho preferito optare per un ruolo di educatrice pagato ancora meno di quello già poco pagato di un insegnante, ma che almeno mi dà la possibilità di avere un contratto a tempo determinato annuale.
Fin da quando ho cominciato a fare supplenze nella scuola primaria pubblica, mi sono trovata in situazioni difficili, molto lontane dal mondo della scuola che avevo vissuto io, boomer, ma anche molto lontane dai tempi della scuola frequentata dalle mie figlie. Mi sono ritrovata a lavorare in una scuola pubblica spogliata di risorse, defraudata della sua precipua funzione educativa, ridotta a piccola azienda e oltraggiata dai suoi stessi utenti-clienti, piccoli e grandi. Questo non sempre ma spesso, in contesti diversi.
Quando qualche giorno fa ho letto, riportate dalla stampa, le dure parole di critica ad alcune categorie di genitori della preside del liceo scientifico “Gaetano Salvemini” di Bari, Tina Gesmundo, mi sono trovata d’accordo. Non sono solo i bambini, i ragazzi, a non rendersi conto del valore dell’istruzione, della cultura, ma sono anche i genitori, gli adulti che ne hanno la responsabilità, a non vedere l’abisso di ignoranza e superficialità nel quale siamo già purtroppo precipitati. Ai governi, che stanziano finanziamenti alle scuole private dove andranno i loro rampolli, questa situazione fa comodo. Ma chi ci rimette siamo noi, la gente comune, che mese dopo mese, anno dopo anno, stiamo perdendo strumenti critici e diritti. Siamo più poveri, le libertà conquistate in anni di lotte dai nostri genitori e nonni piano piano si assottigliano, la corruzione impera, imperano le bugie, le fake-news, riaffiorano le ideologie autoritarie, i fascismi…
La settimana scorsa, in classe, un ragazzo di sedici anni ha risposto a un insegnante che a lui non importava di imparare la matematica, la letteratura, l’educazione civica… «A che cosa mi serve? A me interessa solo il laboratorio, imparare a fare il barbiere. Mi aprirò un negozio a Milano e guadagnerò almeno tremila euro al mese.»
Ho pensato che questo ragazzo – la maggior parte dei ragazzi con i quali mi relaziono da educatrice – andrà purtroppo a sbattere il naso contro difficoltà che non riesce nemmeno a immaginare. Chi lo sta preparando davvero a quello che lo aspetta? Gli insegnanti con i quali collaboro ci provano in ogni modo. Li vedo, li ascolto. Provano a dosare disciplina e tolleranza per non perderli, questi adolescenti in bilico tra il poco e il nulla. «Metti via il cellulare.» «Tira giù quei piedi dalla sedia.» «Le mani a posto, perché non è con le mani che si risolve.» «Non buttare per terra le carte.» «Basta con queste parole.» A volte mi domando che cosa imparino a casa, dai loro genitori, questi nostri studenti. Tutto gira intorno ai soldi, al successo. Non importa come arrivarci. Non importa che si tratti di una chimera per quasi tutti.
«Sai quanto costa affittare un negozio a Milano? Sai cosa significa gestire un’attività imprenditoriale? Quando inizierai a lavorare dopo la scuola, quanto credi che guadagnerai? Pensi che per un posto da apprendista non ci sia concorrenza?», ho chiesto al sedicenne al quale non interessa imparare niente, a parte tagliare i capelli e fare la barba.
«Per i soldi c’è la banca», mi ha risposto.
Auguro a questo giovanissimo di realizzare il suo sogno. Ma la vedo dura, molto dura. Perché malauguratamente dimostra di essere totalmente sprovveduto in merito alle dinamiche che governano questa società. Spietata. Probabilmente a casa nessuno lo ascolta, parla veramente con lui. A volte, infatti, i genitori non ci sono, a volte ci sono ma è come se non ci fossero, a volte sono messi peggio dei figli. E la scuola deve farci i conti ogni giorno. Molti ragazzi sono fragili e nascondono le loro paure, la loro fragilità, la loro solitudine, il vuoto dietro un muro di gomma, fatto di risposte arroganti, di gesti autolesionisti, di ribellione che ribellione non è. Perché invece è un boomerang.
D’altra parte stiamo vedendo che i ragazzi che studiano seriamente, che si interessano a quello che succede, che si impegnano politicamente per decidere del loro futuro, sono sanzionati e repressi. Possono manifestare sempre meno liberamente. Vengono tacciati di essere facinorosi, sarebbero pericolosi. In questo modo, se da una parte si incrementa l’inconsapevolezza e si allevano generazioni di individui che non sanno situarsi nel mondo, dall’altra, fomentando paura, odio e violenza ideologici, si torna indietro, ad anni di scontri che i boomer come me hanno conosciuto e attraversato, e di cui serbano memoria. Non sono tempi che fanno ben sperare. Quindi, che fare?
Dovremmo prenderci le nostre responsabilità, credo. Da genitori, innanzitutto. Da insegnanti ed educatori. Da adulti. Senza voltarci dall’altra parte. Senza pensare che non ci riguardi.
A volte in corriera – qualche autista la chiama “la portapoveri” – mi capita di non riuscire a stare zitta e di ritrovarmi a dire a qualche studente di tirare giù i piedi dal sedile di fronte o di intervenire per far sedere una mamma con un bambino piccolo in braccio, perché nell’ora di punta del rientro a casa dopo la scuola, nel 99% dei casi a nessuno viene in mente di cedere il posto. E qui non c’entrano le competenze, lo studio, c’entra l’educazione, la solidarietà, qualcosa che si impara prima di tutto in famiglia. Devo dire che qualche volta ho paura di una qualche reazione, perché mi è già capitato di sentirmi rispondere in malo modo di farmi gli affari miei. Per fortuna, nel mio caso, si è trattato soltanto di parole, ma venerdì mattina, in stazione, tra ragazzi c’è stato un pestaggio brutale…