È l’arte che piace alle fondazioni bancarie, alle istituzioni promuoventi, ai musei, alle case d’asta, alle holding d’oltreoceano… e che piace, a cascata, ai «mediatori istituzionali» – la definizione è di Mario Perniola, – «autorizzati a santificare in chiave di valore di mercato e di cultura» non soltanto il lavoro di artisti ormai storicizzati, ma anche quello di artisti contemporanei in fase di beatificazione.
Oggi l’arte rientra nella nebulosità del postmoderno, dove tutto è arte e niente lo è, fino a quando il “sistema” non emette il suo verdetto. Dopodiché l’arte è pronta a diventare commodity, ossia un «bene rifugio […] allo stesso livello di sale, avena, maiali, bulk chemicals e tutto quanto il resto».
La gente comune, quella che frequenta le mostre spettacolari, sfornate a intervalli regolari in varie città del mondo, fiere e biennali comprese, di solito non lo sa. Non sa cosa ci sta dietro. Scambia l’intrattenimento per arte. La speculazione finanziaria per mecenatismo culturale.
Per esempio non sa che oltre ai mediatori istituzionali, sacerdoti-secondini dell’attuale sistema dell’arte, coadiuvati dagli indispensabili guru del marketing, esistono nel mondo depositi «armati» dove si trattengono enormi patrimoni artistici, proprietà di pochi paperoni che li hanno acquistati e li detengono come fondi di investimento e talora a garanzia di prestiti – tra questi super-ricchi si annoverano anche le mafie, sempre più spesso interessate a riciclare denaro sporco investendo nel settore.
Uno di questi service speciali è Crozier, a New York, che oltre a essere leader mondiale nella logistica e nei servizi per le belle arti, si occupa anche dello stoccaggio in totale sicurezza delle opere d’arte sia a Chelsea che in altre sedi negli Hamptons, a Brooklyn e a Long Island, nonché nel New Jersey, nel Connecticut e a Boston. A richiesta, i clienti possono contare anche su soluzioni personalizzate di conservazione climatica e di accessibilità tramite un trasporto navetta tra tutte le località della costa orientale. Sul sito di Crozier leggo che la competenza dei membri dei loro team gode della fiducia di artisti, collezionisti, commercianti, gallerie e musei da oltre quattro decenni.
In Svizzera, più vicino a noi, per la precisione a Münchenstein nei pressi di Basilea, c’è invece lo Schaulager, un enorme bunker di cemento costruito dallo studio d’architettura Herzog & de Meuron su incarico della Fondazione Laurenz. Di questo luogo, “aperto” nel 2003, lo storico dell’arte e curatore francese Jean Clair scrisse che «sta all’arte come la banca sta al denaro, un sancta sanctorum dove una manciata di iniziati decidono i prezzi e degli investimenti».
Quando parla del valore dell’arte immagazzinata in giro per il mondo Nicholas Brett, che è stato Amministratore delegato di AXA Art Insurance, dichiara: «Dubito che lei abbia un pezzo di carta abbastanza grande da poterci scrivere tutti gli zeri».
Fondachi come questi sono sparsi sia in Occidente che in Oriente, ubicati preferibilmente, però, nei paradisi fiscali.
Si comprenderà a questo punto come l’Arte, quella in gloria, conti pressoché esclusivamente in quanto materia di contrattazione e transazione economiche. Una tizia come Gertrude Stein, poniamo, che si appendeva in salotto il ritratto fattole da Picasso, presumibilmente per goderne, appartiene a un’epoca remota.
Il libro di Ugo Nespolo, Per non morire d’arte, pubblicato nelle Vele di Einaudi nel 2021, da cui ho tratto alcuni spunti di riflessione e i virgolettati, è un libro denso. L’ho letto con piacere perché è la voce di un artista fuori dal coro, che racconta in modo personale la carne dell’arte vissuta tra due continenti, dal dopoguerra a oggi. Racconta, Nespolo, ma anche analizza, pone problemi lungo un percorso originale, colto, che a me pare politico come oggi non si usa. A chi è in corsa per il successo («rat race») ne sconsiglio la lettura. Perché Per non morire d’arte conduce a un malinconico capolinea.
Infatti: dove pensano di andare tutti questi artisti o sedicenti tali? Li si vede tramestare tra fiere e mostre personali e collettive, intrallazzare con giornalisti e curatori, critici e galleristi, istituzioni pubbliche e private e, qualche volta, truffatori, pur di trovare un posto/posticino nell’Artworld – che per quasi tutti resterà, ovvio, sigillato. L’École de Paris è morta e sepolta. Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, le avanguardie storiche sono state soverchiate dalle corazzate ben sussidiate dell’arte americana, che la Biennale di Venezia del 1964 accolse trionfanti. Secondo Nespolo, il portato fu la creazione di un ambiente «massimamente gerarchizzato, pericolosamente osservante in un crescendo vertiginoso tutto managerialità, ripetizione e dominio artificiale dei valori economici, quelli che ancora oggi dominano il panorama artistico mondiale». Si può dargli torto?
Quali possibilità, allora, per l’arte: per chi la fa, per chi la frequenta?
Nel 1923 Marcel Duchamp scrisse: «L’atteggiamento veramente serio è interpretare l’arte come mezzo per raggiungere qualcosa che forse si può ottenere solo abbandonando l’arte».
Per Ugo Nespolo, tuttavia, la “provocazione” dell’artista francese potrebbe essere interpretata in modo tutt’altro che nichilista. In proposito scrive:
«Abbandonare può anche avere il significato di occultare o di non dire, osservare la coerenza del silenzio o il silenzio e basta, proprio come scrive Ludwig Wittgenstein: in arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente.»
E se qualcuno lo trovasse, questo messaggio in bottiglia?
P.S. Cover: https://prosperousnetwork.com/2017/12/buon-compleanno-zio-paperone/