Non molti anni fa, in un posto di montagna che corrisponde a un puntino ino ino sulla carta geografica, viveva una ragazza così alta, che quando camminava aveva sempre la testa infilata in una nuvola. E dato che le nuvole di montagna, si sa, sono famose per avere continuamente voglia di scorrazzare per i prati e rotolare giù dai pendii, la povera ragazza finiva con l’uscire ben di rado. Se però doveva proprio farlo, per esempio perché in casa non c’era più nemmeno un grammo di cacao per la cioccolata del pomeriggio, allora si metteva carponi e imboccava la salita che portava fino al paese. Una volta arrivata a destinazione, si tirava su in fretta, e per non inciampare per colpa delle nuvole in nessuno dei tre gradini del negozio sulla piazza, apriva la porta a razzo. Se era inverno, poco male: la nostra eroina si avviava verso casa, sempre a quattro zampe, tranquilla tranquilla, perché i suoi compaesani non ci facevano più caso, a come si spostava. Ma d’estate… D’estate una piccola folla di turisti la seguiva dal negozio fino al cancello che chiudeva la sua proprietà e, credetemi, i commenti di quegli sfaccendati non erano per niente carini.
L’unico che sembrava capirla sul serio era Tommaso, il randagio del paese, che la seguiva, sì, come gli insopportabili turisti, ma festoso, come si fa con gli amici con cui si è in grande confidenza. Era contento, il cane Tommaso, di andarsene a passeggio con qualcuno. Aveva perfino smesso di chiedersi perché quella strana creatura non facesse pipì ogni tanto, così come faceva lui per segnare il territorio. Ma in fondo non gliene importava granché, e anzi, era contento, perché in questo modo la strada era tutta sua.
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A parte i turisti d’estate, la vita di Atti, la nostra eroina, scorreva serena. Proprio come diceva il suo nome di origine norvegese, a dispetto dell’alta statura Atti era molto graziosa, e per di più aveva un carattere socievole. Nel piccolo paese di montagna i suoi cioccolata-party erano leggendari, e tutte le signore e signorine facevano a gara per parteciparvi. Si trattava, infatti, di feste assai golose ma ipocaloriche: nessuna delle invitate si era mai lamentata di avere messo su anche soltanto un etto, pur avendo mangiato dolciumi, biscotti, paste e torte in quantità. L’unico neo era la mitica cioccolata di Atti.
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Come? direte voi. Faceva ingrassare così tanto?
No, per niente. Ma Atti aveva stabilito una regola ferrea: la sua cioccolata doveva essere sorbita esclusivamente con la cannuccia.
Come? direte voi. E allora i biscottini secchi da far ruzzolare con il cucchiaino nello spesso strato cremoso di cioccolata? o i bignè, così snob da galleggiare con ostinazione da un bordo all’altro della tazza sporcandosi appena? o le briciole di torta da rastrellare tutte insieme in una squisita collinetta cioccolatosa?
Eh già, era quello che si domandavano anche le ospiti di Atti!
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La cannuccia, però, è un accessorio importante.
(pausa)
Rende attuale una bevanda ingiustamente caduta in disuso o, peggio,
(pausa)
sostituita da quegli orribili intrugli pronti in cinque minuti,
in vendita ormai dappertutto, perfino nel piccolo negozio
(pausa)
di questo piccolo paesino di montagna,
(pausa)
argomentava tutta impettita Atti, leccandosi contemporaneamente i baffi. Sicché nessuna signora o signorina aveva mai osato contravvenire alle sue disposizioni.
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Di lavoro Atti era inventrice e illustratrice di ricette per bambini, che pubblicava su giornali e rivistine destinati ai più piccoli. Ogni ricetta era originale e presentata ogni volta con uno stile diverso. Sentendosi una grande artista, Atti sperimentava infatti manicaretti e tecniche illustrative sempre nuove, che spediva nelle grandi città attraverso la posta elettronica, cioè quella dentro il computer, o attraverso la posta tradizionale, cioè quella con i francobolli, a seconda delle esigenze degli editori. Col tempo si era fatta una certa fama. I bambini aspettavano impazienti le sue strisce colorate, le sue tavole gotiche, i personaggi creati al computer, raccogliendo ricette come le loro mamme, oppure raccogliendole addirittura insieme a loro in stravaganti album da collezione.
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Nel paesino di montagna dove Atti viveva, tutti, naturalmente, ignoravano di cosa si occupasse e come passasse il suo tempo. A parte, forse, il postino, che aveva cominciato a sospettare qualcosa. Secondo lui tutte le buste azzurre rinvenute regolarmente nella buca delle lettere in piazza, erano di provenienza della stessa mano, quella di Atti. Però non era ancora riuscito a stabilirlo con certezza: vuoi perché il mittente non compariva mai, vuoi perché, appassionato lettore di gialli, preferiva inventarsi ogni giorno una trama diversa, dove le buste azzurre erano appunto l’elemento cruciale che l’avrebbe condotto a scoprire un mistero.
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E in effetti Atti un segreto ce l’aveva.
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No, non è come credete voi. Non erano i pastelli, i colori a olio, gli acquerelli o le chine, no; e non erano nemmeno le ricette per i più piccini. Erano proprio le buste azzurre, il suo segreto. Il postino, come ogni postino che si rispetti, aveva visto giusto.
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Per esempio oggi, che è una glaciale giornata di febbraio, facendo il suo solito giro del paese, il Signor Postino ha trovato due nuove buste azzurre, la prima indirizzata a un Domatore di Leoni e la seconda a un Allevatore di Mucche Olandesi. Ieri, invece, le lettere erano tre: una per il Signor Console dell’Antica Città dei Tucani Verdi, una per il Dottore degli Alberi della Gomma, e l’ultima per l’Esimio Cuoco del Ristorante Grandi Pancioni.
Come potete immaginare, il postino non ci capisce un’acca.
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Ma tu lo sai, a chi scrive Atti? vi potrebbe venire in mente di domandarmi.
Beh sì, certo che lo so. Ma non sono tipo da spifferarlo. Anche se in questo caso… in questo caso forse, dico forse… si potrebbe fare un’eccezione.
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Dunque Atti scriveva ogni giorno almeno due lettere a due persone diverse. Domatori di bestie feroci, eccellenze, cuochi a quattro stelle…
La verità era che Atti, nel corso dell’ultimo inverno, si era innamorata.
Nelle fiabe innamorarsi è la cosa più bella che accade ai protagonisti, di solito due giovani incantevoli, spesso rampolli e dilettissimi figli e figlie di re.
Ma Atti non rientrava in questa categoria.
Le sue passeggiate a quattro zampe con il cane Tommaso, le lunghe giornate nuvolose trascorse segretamente in casa tra pentole e colori, i cioccolata-party ne facevano più che altro una signorina eccentrica, a cui tutti in paese volevano un gran bene, ma di cui nessuno era veramente amico.
Di chi fosse figlia non si sapeva, così come non si sapeva da dove fosse venuta. Era arrivata un giorno d’agosto con un cappello di paglia in testa, colori e cavalletto sulle spalle, ed era andata a dipingere le rovine del vecchio castello vicino al dirupo. Qualche mese più tardi la si era vista passare per la piazza del paesino a bordo di un vecchio furgone scassato, con scritto “Il trasloco della tranquillità” su ambedue le fiancate. Da quel momento aveva abitato l’unica casa di pietra che ancora rimaneva in piedi nei pressi del maniero diroccato, infestato, così dicevano i paesani, dal fantasma del brigante Bertoletto e i suoi.
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I fantasmi non esistono! dirà certamente qualcuno di voi.
Vi posso assicurare di sì, invece. Perlomeno quello di Bertoletto. Fu proprio a causa di Bertoletto, infatti, che Atti conobbe il suo innamorato…
… Che non era propriamente un cacciatore di fantasmi. Neanche un appassionato di montagna. E neppure, a ben vedere, un tipo stravagante. Quello che Atti trovò fuori dalla porta di casa sua, una mattina di metà gennaio, era un tizio semicongelato con i piedi da papero, come ebbe modo di osservare più tardi la nostra eroina davanti alla stufa.
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Non si è ancora tolto il cappello… Che ridicolo! Lo tiene così calcato sugli occhi che è già inciampato due volte nella gatta Celia… Celia, la burlona…
pensa Atti dopo averlo fatto accomodare in casa.
Ha il naso tutto rosso e la faccia, beh quel che si vede della faccia, così bianca che sembra per davvero uno dei fantasmi del castello…
pensa ancora Atti.
Però è alto come me. Chissà se anche lui cammina a quattro zampe per evitare di cacciare la testa nelle nuvole… Quasi quasi glielo chiedo…
si ripromette.
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Ma non andò affatto così. Atti non solo si dimenticò di chiedere allo sconosciuto come se la cavasse con le nuvole, ma non gli chiese nemmeno il nome. Pensò invece di preparargli la sua portentosa cioccolata, in modo che si scaldasse presto.
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Perché Atti ha fatto entrare in casa uno sconosciuto? Non si fa! potreste osservare a questo punto voi.
E avreste ragione, senza dubbio. Però questa è una storia, e le regole che valgono per me e per voi non valgono per Atti e il suo innamorato, il quale, detto tra noi, al momento è talmente infreddolito da non rendersi per niente conto di quel che sta per accadere.
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Lo sconosciuto dal naso rosso e i piedi da papero fece una cosa che non era mai stata fatta nella cucina di Atti: prese dal tavolo un cucchiaino dimenticato lì e lo tuffò nella tazza di cioccolata fumante. Atti non ebbe il tempo di aprire bocca, che il giovanotto aveva già trangugiato tutto e la guardava con aria implorante. Senza dire parola, lei gli versò un’altra tazza di cioccolata caldissima, che questa volta lui, il futuro innamorato, coprì con una montagna di amaretti.
Non dissero nulla. Stettero seduti in silenzio davanti alla stufa. Gnam gnam… faceva lui. E questo fu tutto.
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Non disse nemmeno grazie, questo signore sconosciuto? si domanderà di certo il più educato di voi.
Effettivamente no, non disse nemmeno grazie. Il freddo gli aveva congelato anche la lingua, e adesso che cominciava a scaldarsi un po’, temeva che a parlare gli sarebbero usciti dei versi da vecchia cornacchia, e chissà cos’avrebbe pensato di lui quella strana ragazza allampanata.
Pie-DI-da-PA-pe-RO e VO-ce-DA-cor-NAC-chia: no no no. Assolutamente fuori discussione..
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Fuori dalla finestra intanto nevicava. Lenta lenta, la neve aveva già imbiancato le rovine del castello, costringendo il fantasma Bertoletto a ritirarsi nelle segrete del maniero, dove con i suoi soci avrebbe fatto la polenta e giocato a dadi.
La neve era stata provvidenziale, pensava Bertoletto. Quella specie di gigante che ora stava nella casa della sua vicina, la Signorina Quattrozampe, lo avrebbe lasciato in pace ancora per un po’. Ma bisognava escogitare un piano per sbarazzarsi di lui al più presto, bisognava fare in modo che si dimenticasse del castello una volta per tutte.
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Ha bevuto la mia cioccolata con il cucchiaino…
freme Atti.
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Ma tutto sommato, a pensarci su, non è andata poi tanto male: la cioccolata gli è proprio piaciuta.
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Ops,
ricorda improvvisamente Atti,
ho una consegna giusto domani, devo sbrigarmi a trovare subito una nuova ricetta.
E nello scattare in piedi sveglia di colpo lo sconosciuto che si è appena appisolato.
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Tirandosi su di scatto anche lui, lo sconosciuto cozzò prima la testa contro una trave del soffitto (legno di rovere ben stagionato), poi rimbalzò contro un’altra trave proprio di fronte al suo capoccione, prendendosi questa volta una zuccata dritta in fronte. Quando infine si girò verso Atti, gli occhi gli si erano assottigliati come fessure di salvadanaio. Non aprì bocca: crollò a terra come un vecchio tronco di castagno.
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Atti ci restò di sale. Lo sconosciuto Paperello, così lo aveva soprannominato nel frattempo tra sé e sé, era svenuto. Questo sì che era un evento straordinario! In quattro e quattr’otto Atti ideò un complicato sistema di carrucole per tirarlo su, fino al piano superiore, dove c’era un divano letto per gli ospiti.
Ma dove aveva messo le funi?
Mentre Atti si arrovellava su questo punto, il povero Paperello aveva aperto un occhio. Vedeva moltissimi cerchiolini colorati, di diverse grandezze, e sentiva anche un din don come di campanellini. Durò tre istanti, perché poi accusò una fitta sopra la testa, e un’altra alla fronte, e poi ancora alla testa, nel mezzo, e di nuovo giù, tra gli occhi, in una girandola continua. Ebbe fortuna, perché Atti in quel momento, pensando di avere messo le funi nella cassetta della legna vicino alla stufa, si girò verso di lui.
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Ohhh!
esclamò stupita.
Visto dall’alto, Paperello sembrava essersi trasformato in un unicorno. Dalla fronte, infatti, spuntava un’unica protuberanza color melanzana. Atti gli girò intorno per studiare il fenomeno e si rassicurò: anche dal centro esatto della testa spuntava un bitorzolo sproporzionato, in questo caso di un bel color lavanda. Almeno così le sembrava.
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Come potete notare, Atti era proprio impacciata: non sapeva cosa fare.
Forse avrebbe dovuto chiamare un’ambulanza al telefono. Ma quando nevicava, la linea telefonica si interrompeva sempre, sicché scartò subito questa ipotesi.
Forse avrebbe dovuto riempire in fretta la borsa del ghiaccio e poggiarla sulla testa di Paperello. Ma non ne aveva due, sicché quale dei due bitorzoli avrebbe dovuto raffreddare per primo?
Forse avrebbe dovuto almeno chinarsi sullo sconosciuto per vedere se respirava. Ma Atti era molto spaventata, sicché preferì concentrarsi sulla questione tecnica del trasporto al piano superiore, che al momento le sembrava più impellente: come avrebbe potuto sollevarlo da sola?
Il Destino, in ogni caso, era dalla loro parte. Nonostante tutto, Paperello aveva la testa abbastanza dura da resistere anche al legno di rovere più solido. Era stordito, ma si alzò su un gomito ed emise un gemito. Atti, allora, si abbassò.
Vuoi una cioccolata?
chiese.
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Fuori continuava a nevicare. Nelle segrete del maniero, Bertoletto e i suoi compari rimestavano la polenta in un gran calderone annerito dal fumo di qualche secolo di fuochi. Cinghiale, il luogotenente di Bertoletto, grattava croste di formaggio da mischiare alla polenta e cantava a voce spiegata “Albachiara” di Vasco Rossi.
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Non è possibile… insorgerete voi. Vasco Rossi è uno di adesso.
Cari miei, anche a me sembrava strano, eppure…
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Cinghiale era sempre stato un gran romanticone, fin dai tempi remoti in cui corteggiava Gran Dama Vitino di Vespa, la cugina francese della castellana del paesino di montagna sperduto, allora come ora, nella vastità della cartina geografica. All’epoca, Cinghiale componeva per la sua amata deliziose canzoncine, che lasciavano, ahimè, del tutto indifferente l’oggetto dei suoi desideri. Oltre a essere un brigante ricercato per tutti i boschi, le cime e le vallate del circondario, egli non era affatto bello: come avrebbe potuto, Gran Dama Vitino di Vespa, prenderlo in considerazione? Ma Cinghiale non si arrendeva, e tutte le estati, all’arrivo per le vacanze dell’avvenente fanciulla, non la smetteva di assediarla con stornelli sempre nuovi. Così, quando Gran Dama Vitino di Vespa smise di far visita alla cugina castellana perché i viaggi in Italia non usavano più, Cinghiale pensò che fosse per via delle sue canzoni: non gli era riuscito di trovare quella giusta. “Albachiara”, invece, l’aveva fulminato fin dalla prima volta che l’aveva sentita alla radio portatile della Signorina Quattrozampe, la loro vicina, impegnata a copiare dal vero una foglia di verza nell’orto per chissà quale inedita versione dei fagottini di riso all’orientale. Quella sì che poteva dirsi una canzone: come diavolo aveva fatto questo Signor Rossi a farsela venire in mente? Da allora, ogni volta che la Signorina Quattrozampe cacciava il naso fuori dalla porta di casa, se con la sinistra reggeva la radio portatile, Cinghiale la tallonava ovunque, in attesa che si sintonizzasse su qualche stazione musicale. In questo modo riuscì a sentire “Albachiara” sei volte, quanto bastava per impararla a memoria.
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Sì, direte voi, però oramai Gran Dama Vitino di Vespa non c’era più…
Sarebbe una fondata osservazione, la vostra. Se questa, però, non fosse una favola.
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In realtà, Gran Dama Vitino di Vespa è viva e vegeta (si fa per dire, perché è diventata un fantasma pure lei), infesta il suo vecchio maniero diroccato nel Nord della Francia e, meraviglia delle meraviglie, in questo preciso momento sta scrivendo una lettera indirizzata proprio a Cinghiale. Costui, infatti, è l’unico che per secoli abbia continuato ad amarla lealmente, cercando per lei una canzone veramente giusta. Col tempo, Gran Dama Vitino di Vespa ha imparato che certe cose non sono poi da disprezzare, e che una canzone giusta da parte di un innamorato devoto vale più di tante smancerie. Dunque…
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Ma intanto Bertoletto ha perso la pazienza. Non ne può più di sentire il suo luogotenente cantare a voce spiegata assurdità come questa “Albachiara”, che tra l’altro non è stata nemmeno una regina famosa.
SI È BRIGANTI, PERBACCO, MICA MENESTRELLI!
Quindi schizza in piedi e brandendo il suo archibugio si fa strada verso Cinghiale.
O LA PIANTI DI ULULARE,
gli stampa in faccia secco,
O TI SCARAVENTO NEL POZZO DI MATILDE, COME È VERO CHE MI CHIAMO, E SONO, BERTOLETTO.
Gli astanti rimangono allibiti. Un cupo silenzio li avvolge tutti. L’accenno alla povera Matilde li riporta ai tempi in cui erano uomini in carne e ossa.
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Matilde era la nipote del signore del castello, l’arcigno duca Moro, detto il Grasso. Era una fanciulla dolce, con un cuore d’oro, che aveva come unica colpa quella di stare dalla parte dei briganti. Quando la masnada dei banditi razziava le terre del suo Signor Zio, Matilde li commiserava, mandando su tutte le furie il Grasso, che non riusciva a capacitarsi di avere avuto in sorte una nipote così ottusa. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando Moro il Grasso intercettò una lettera sigillata con la ceralacca che Matilde aveva indirizzato al capo dei briganti, per l’appunto Bertoletto. Fattala venire al suo cospetto, il duca le intimò di raccontare tutto quello che sapeva, altrimenti… Altrimenti l’avrebbe fatta gettare nel pozzo più profondo del castello, incontro a morte sicura, disse.
Matilde, però, non sapeva niente di niente di quelli che il suo Signor Zio chiamava “i furfanti”, se non che Bertoletto le aveva fatto sapere, tramite una serva, che l’ammirava per il suo coraggio e che sarebbe stato lieto di ospitarla nel suo covo per un pranzo in suo onore. Assai stupita, Matilde gli aveva scritto un biglietto cortese in cui lo ringraziava ma si diceva costretta a rifiutare l’invito, sapendo quanto le sarebbe costato accettare.
Davanti a Moro il Grasso giurò di essere innocente, ma non ritrattò l’apprezzamento con cui considerava i briganti: poveracci, a suo dire, che rubavano ai ricchi per distribuire qualcosa anche ai poveri.
Era senza dubbio una dama coraggiosa!
Il Grasso, che aveva un cuore di pietra e un’indole crudele, tenne però fede alla sua promessa: non volle crederle e la fece gettare nel pozzo.
I briganti vennero a conoscenza dei fatti per caso soltanto una settimana dopo, nella locanda del loro compare Fratantonio, dove il tragico caso veniva narrato da uno stalliere del duca, fuggito dal castello per i continui maltrattamenti subiti.
Si dice che Bertoletto abbia pianto a lungo e che le sue lacrime abbiano fatto crescere in una sola notte una rigogliosa siepe di bosso.
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Che storia triste… penserete voi.
E non avreste torto. In questo momento Bertoletto è più dispiaciuto di Cinghiale: ha nominato Matilde dopo tanti secoli, e non sa il perché.
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Lassù in alto la neve scende lenta, ammantando i boschi e le rovine del castello, che è il quartier generale dei briganti. Ammantando anche il pozzo della bella e coraggiosa Matilde.
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AH, MATILDE… sospira Bertoletto.
Ed ecco che non appena le sette lettere del nome della bella dama si compongono nella sua mente, il brigante ha un’idea. Come mai non gli è balenata prima?
Attraversa la segreta di corsa, si para di fronte a Cinghiale e gli fa:
SONO SECOLI CHE TU SEI IL MIO LUOGOTENENTE, TI SEI SEMPRE DIMOSTRATO VALOROSO E FIDATO, PERCIÒ MI SCUSO PER AVERTI TRATTATO COSÌ DURAMENTE. SIAMO FUORILEGGE, LE NOSTRE REGOLE NON CI CONSENTONO DI INDUGIARE IN SENTIMENTALISMI, È VERO, TUTTAVIA… TUTTAVIA DEBBO RICONOSCERE CHE CON LE TUE CANZONI HAI SAPUTO TENERCI ALLEGRI ANCHE NEI MOMENTI PIÙ BUI, QUANDO TUTTO SEMBRAVA PRECIPITARE E ALL’ORIZZONTE NON SI PROFILAVANO VIE D’USCITA, TI SIAMO GRATI PER QUESTO. GIUSTO, RAGAZZI?
grida il brigante, voltandosi per chiamare a raccolta i suoi.
Il coro di urrà, yippie, urrà, yippie che si leva da ogni parte conferma le parole del capo.
Cinghiale è sbalordito. Con la destra regge la lama, con la sinistra una crosta di formaggio raschiata per metà (gliene restano ancora quarantacinque da grattare, e non ha molto tempo).
… PERTANTO HO PRESO LA SEGUENTE DECISIONE…
riprende Bertoletto.
TI PROMUOVO SEDUTA STANTE AEDO DELLE NOSTRE GESTA PASSATE, PRESENTI E FUTURE. COMINCERAI SUBITO,
dichiara.
Aedo? AeDo? AEDO?, gli fanno eco tutti insieme i briganti, rischiando di far crollare la volta. Nessuno di loro, infatti, ha la minima idea di che cosa sia e faccia, un aedo.
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Se è per questo, neanche noi.
Che silenzio di tomba: i briganti sono ammutoliti e voi sgranate gli occhi. Devo dedurre che nessuno ha mai sentito parlare di aedi?
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Io sì.
Di chi è questa vocina, chi sei?
Sono un fantasma molto, molto più vecchio di Bertoletto. Vivo qui da parecchie centinaia di anni, quando ancora il castello si ergeva solido e accoglieva gente da ogni dove. Che tempi, quelli! Di qui passavano le truppe dirette ai valichi di montagna con i loro fardelli di racconti; nei boschi e in valle si accampava la soldataglia errante: ciascuno barattava i propri tesori saccheggiati qua e là con cavalli e cibo, e qualche volta un poeta si fermava per una notte o due. Notti memorabili, popolate di amori e duelli, morti e vendette, terre lontane, belve e acque profondissime mai sazie di vite umane…
Devo ammettere che hai una gran bella voce, Fantasmino. Ma da dove sbuchi? Io non avevo nessuna intenzione di crearti.
È colpa tua, sei tu che hai tirato fuori questa storia degli aedi…
Bertoletto, vorrai dire.
No, tu! Bertoletto è un brigante. Cosa vuoi che ne sappia, di aedi, un brigante?
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COME SAREBBE A DIRE CHE I BRIGANTI NON NE SANNO NULLA DI… A… A… AEDI?
sbotta invelenito Bertoletto.
SEI TU CHE NON SAI NULLA DI BRIGANTI!
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Ehi ragazzi, buoni. Ora, per rispetto nei confronti del nostro pubblico, dirò cos’è un aedo; poi proseguiremo con il nostro racconto. Tu, Fantasmino, fila via. Tornatene subito là da dove sei venuto. E tu invece, Bertoletto, preparati, sei di scena subito dopo di me. E cerca di non arrivare in ritardo.
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Uff, che fatica… Ma che cosa state facendo tutti quanti?
Mentre Fantasmino e Bertoletto si accapigliavano, abbiamo cercato la parola “aedo” nel dizionario.
Ah sì? Che bravi!
Gli aedi erano i poeti che nell’antica Grecia cantavano le imprese memorabili degli eroi, dice qui. Dice anche che cantavano accompagnandosi con la lira…
Beh sì, a quei tempi la lira era uno strumento musicale molto in voga. Come per noi la chitarra, tanto per fare un esempio.
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BertolettOOO, dove ti sei cacciato? Tocca a tEEE…
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Così Bertoletto rientrò in scena e riprese esattamente dal punto in cui si era interrotto.
… COMINCERAI CANTANDO LE GESTA EROICHE DI MATILDE, CHE PREFERÌ SACRIFICARE LA VITA PITTOSTO CHE CEDERE AI RICATTI DI SUO ZIO MORO IL GRASSO… E FU, FINO ALL’ULTIMO, DALLA PARTE DEI BRIGANTI. CIOÈ NOSTRA,
concluse.
Immobile come una statua di sale, nella destra la lama, nella sinistra la crosta di formaggio, Cinghiale spalancò la bocca, ma non gli riuscì di emettere suono. Il suo sogno segreto stava per realizzarsi: dopo tutti questi anni sarebbe finalmente diventato… cantautore.
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Ma prima avevi detto aedo. Se dicevi cantautore, capivamo subito.
Puah, vi ci mettete anche voi adesso? Non sono stata io, a parlare di aedi. È stato Bertoletto, devo ripeterlo? E ora, per favore, basta con le divagazioni e le polemiche, facciamo andare avanti questa storia. C’è un amore che sta per sbocciare, un problema da risolvere con Paperello, di cui non sappiamo ancora nulla, una lettera in arrivo dalla Francia e un postino alle prese con un mistero da risolvere: vi pare poco?
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Mentre Atti preparava la terza tazza di cioccolata per Paperello e Bertoletto nominava Cinghiale cantautore, pardon, aedo ufficiale delle imprese dei suoi, il paesino di montagna rimaneva isolato dal resto del mondo. La neve caduta a dismisura aveva ostruito la strada di accesso che portava fin lassù, tanto che perfino il cartello che indicava il nome del luogo era sparito del tutto sotto un cumulo bianco. I protagonisti della nostra storia, però, non si erano accorti di niente.
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Ad Atti, tutta presa dai colori dei bernoccoli dello sconosciuto, venne in mente su due piedi una nuova ricetta: gli involtini di prosciutto alla glassa di ribes rosso e nero. Beh, forse per questo piatto i bambini avrebbero dovuto farsi aiutare dalla mamma, ma l’unicorno che l’avrebbe illustrato sarebbe stato galattico, come non se ne erano mai visti.
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Un unicorno? E cosa c’entra un unicorno con gli involtini di prosciutto alla glassa di ribes rosso e nero? domanderà il solito pignolino tra di voi.
C’entra come i cavoli a merenda, sono d’accordo. Ma Atti è un’artista, e gli artisti vedono cose che noi non vediamo. Pertanto proseguiamo e stiamo a vedere cosa succede.
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Il nostro Bertoletto, una volta risolta la faccenda di Cinghiale, si era concentrato sul grave problema che rischiava di mandare all’aria tutti i suoi progetti degli ultimi due anni. Si trattava di idee innovative, di cui non aveva parlato ancora con nessuno. Mai più furti negli stipi delle cucine del paese per rimediare qualche cucchiaiata di farina di mais da farci la polenta; mai più ruberie nei trogoli dei maiali, giù in valle, per qualche crosta di formaggio e poche patate rancide; mai più latrocini di bottiglie di vino dal sapore sospetto nel negozietto di alimentari sulla piazza: il maniero diroccato del paesino ino ino di montagna, sperduto sulla carta geografica, si sarebbe trasformato in una miniera d’oro.
Come?
Semplice: Bertoletto e i suoi lo avrebbero gestito come un moderno agriturismo.
Per cominciare, avrebbero offerto un breve soggiorno gratis a tutti i fantasmi prestigiosi della regione (Bertoletto aveva sentito dire che era una tecnica di marketing molto efficace); la voce si sarebbe sparsa facendo accorrere fantasmi da ogni parte. Bertoletto si immaginava già «spiacente di non poter accettare la prenotazione, grazie, ma siamo al completo». Poi avrebbero organizzato eventi in collaborazione con le diverse associazioni fantasmatiche: convegni, rassegne, concerti…
Era questo che Bertoletto sognava. Paperello, però, era riuscito a trasformare i suoi sogni in un incubo.
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Dovete sapere che Paperello, che di mestiere è geologo, cioè studia gli strati della terra come un pasticciere quelli di una torta millefoglie; dovete sapere, appunto, che Paperello si è messo in testa che la sua fortuna si nasconda proprio sotto le segrete del castello che fu di Moro il Grasso.
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Quale fortuna? domanderete voi.
State tranquilli, non si tratta certo di Bertoletto e della sua banda. I fantasmi, infatti, rendono solo se inglesi e possibilmente provvisti di un castello in buone condizioni. Si tratterebbe, piuttosto, di una vecchia storia. Il caro, buon “oro nero”, altrimenti detto PE-TRO-LIO. Paperello vorrebbe trivellare la montagna e farsi la doccia sotto il getto del preziosissimo liquido nero. L’ho sentito dire che con i soldi che ricaverà da questa avventura vuole comprarsi una fattoria, costruirci un recinto per le mucche da latte, e volare, volare, volare per sei ore al giorno con un velivolo biposto. In questo modo riuscirà a disegnare tutte le mappe che desidera, dice, perché questa è la sua passione segreta da quando andava alle elementari. Capite bene, ora, perché Bertoletto non lo veda per niente di buon occhio. Ai fantasmi non importa nulla del petrolio, loro si spostano attaccandosi alla gente o facendosi soffiare dagli amici. Il fatto che la sua idea dell’agriturismo rischi di saltare per colpa di un qualsiasi pozzo di petrolio non gli garba proprio, a Bertoletto. Niente di personale, naturalmente. Ma quel Paperello va rimesso al suo posto, costi quel che costi. Come, però?
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Il pomeriggio volgeva al termine. Atti aveva disegnato un unicorno bellissimo e accanto ci aveva scritto in lettere maiuscole e un poco sghembe: Involtini di Prosciutto alla Glassa di Ribes Rosso e Nero. Stava per elencare gli ingredienti necessari a realizzare questa nuova ricetta, quando i suoi occhi incontrarono casualmente quelli di Paperello.
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Ci siamo, penserete voi. È questo il momento: ora Paperello, non più infreddolito, si innamorerà di Atti, e finalmente Atti guarderà Paperello per davvero, trovandolo molto, molto affascinante.
Devo riconoscere che avete ragione, il momento è proprio questo.
Paperello e Atti si guardano negli occhi. E si trovano carini. E sono molto contenti di essere insieme. Non capiscono perché, ma sentono un tremolio alle gambe e un formicolio nelle orecchie. Gli occhi di Paperello sono lucidi, quelli di Atti imbambolati.
Quel che sta accadendo nella casa di pietra poco più in là, Bertoletto non se lo immagina di certo. Inoltre a quest’ora la polenta è quasi pronta.
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Come credete che finirà la nostra storia?
Un momento, però. Prima di sentire la vostra opinione, voglio confidarvi un segreto.
Per quanto bizzarra, una favola che si rispetti deve dare soddisfazione. Deve, cioè, avere un lieto fine. Personalmente non sono riuscita a mandare giù la storia di Matilde. Il fatto che questa bella e coraggiosa dama sia stata ingiustamente fatta scaraventare in un pozzo dal suo malvagio Signor Zio, Moro detto il Grasso, non mi è sembrato assolutamente in linea con la mia idea di fiaba. Così mi sono permessa di fare qualche ricerca e ho scritto a Gran Dama Vitino di Vespa.
«Gentile Signora Dama»
(iniziava così la mia lettera)
«lei sarà di sicuro al corrente della tragica sorte toccata a Matilde, la nipote del duca Moro, detto il Grasso, signore del castello dove lei soggiornava ai bei tempi della sua, ehm… della sua lontana gioventù. Eravate parenti, se non sbaglio. Ebbene, andò davvero così come si racconta, che la bella Matilde morì di fame in fondo al pozzo dov’era stata gettata per ordine del feroce Moro? e che fine fece il crudelissimo signore del castello?»
Ho fatto la mossa giusta. Gran Dama Vitino di Vespa sapeva cose che nessuno ha mai saputo per secoli. Come sospettavo, la vicenda di Matilde ebbe per fortuna un epilogo ben diverso da quello, terribile, narrato a Bertoletto e ai suoi nella locanda di Fratantonio. Squilli di tromba, udite udite: Matilde non solo si salvò, ma visse fino a centovent’anni felice e contenta insieme con il suo liberatore, che altri non era che… lo stalliere fuggito dal castello.
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Come? direte voi. Ma non fu proprio lui a raccontare a Bertoletto e agli altri che Matilde era morta nel pozzo dov’era stata gettata dagli scagnozzi del suo Signor Zio?
Miei cari, non sempre ciò che viene detto corrisponde al vero. E questo è proprio uno di quei casi per cui Bertoletto e i suoi avrebbero fatto meglio a indagare.
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Innamorato della bella Matilde, nottetempo lo stalliere si era precipitato a salvarla. Temendo, però, che la loro fuga venisse scoperta con conseguenze terribili per entrambi, aveva provveduto a nascondere la sua amata in una vallata lontana, dove nessuno l’avrebbe trovata. Per essere ancora più sicuro, aveva girovagato per i monti e le valli circonvicini per qualche tempo. A tutti lo stalliere raccontava la stessa storia: Matilde era morta in fondo al pozzo per colpa del crudele Grasso. Ci credevano tutti, e così questa finì col diventare la versione ufficiale dei fatti. Come in tutte le favole, anche Matilde e lo stalliere si sposarono e vissero felici e contenti per tantissimi anni.
Per la verità vivono insieme, felici e contenti, ancora oggi. Sotto forma di fantasmi, beninteso. E sono spesso ospiti di Gran Dama Vitino di Vespa, l’unica a essere stata la depositaria della verità per tutti questi secoli.
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Ma… e il crudele Grasso? vorrete sapere.
“Chi di spada ferisce, di spada perisce”, recita un antico proverbio.
Volendo accertarsi di persona della morte della nipote, successe che Moro il Grasso si sporse un po’ troppo oltre l’orlo del pozzo, perse l’equilibrio e vi ca-pi-tom-bo-lò. Non venne mai più ritrovato. A chi, infatti, sarebbe venuto in mente di cercarlo proprio lì, nel pozzo di Matilde?
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E adesso che abbiamo riassestato la nostra favola, assegnando ai buoni e ai malvagi quel che gli spetta secondo giustizia, possiamo cercare di immaginare un lieto fine anche per tutti gli altri personaggi della nostra storia. Che non sono né buoni né malvagi, come spesso accade anche nella vita di tutti i giorni.
Bertoletto sogna un agriturismo. Paperello una fattoria e di volare per disegnare mappe. Gran Dama Vitino di Vespa sogna Cinghiale, e Cinghiale sogna di lei. Il Signor Postino sogna di scoprire il mistero delle buste azzurre. E Atti, qual è il sogno di Atti?
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Passarono alcune settimane, arrivò la primavera.
Come sappiamo, Atti si era dimenticata di chiedere a Paperello come si chiamasse e dove vivesse.
Paperello era ritornato a casa sua, i bozzi sulla fronte e al centro esatto della testa erano guariti. Il cuore, invece, lo faceva disperare.
Bertoletto era arcistupito: quel guastafeste di aspirante petroliere si era volatilizzato.
Nel frattempo il Signor Postino aveva cominciato a trovare le buste azzurre.
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Un giorno arrivò un plico tutto rosa. L’indirizzo di destinazione indicava un certo Cinghiale residente, in modo inequivocabile, presso il maniero diroccato vicino alla casa di Atti. Non c’era mittente, ma il timbro postale era francese.
E che buon profumino, annusava il Signor Postino.
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Noi lo sappiamo di chi è quella lettera… direte voi.
Certo che sì: la lettera è rosa, arriva dalla Francia ed è anche profumata. Gran Dama Vitino di Vespa non si smentisce mai, da signora qual è, ha fatto tutto secondo le regole. C’è un solo problema: il Signor Postino. Recapiterà il plico a Cinghiale presso le rovine del castello, se lì non c’è nessuna cassetta delle lettere?
Potrebbe lasciare la lettera vicino alle rovine, e metterci un sasso sopra per evitare che voli via… È quello a cui state pensando, vero?
È quello che sta pensando anche il Signor Postino in questo preciso istante. Anzi, lui pensa che una volta depositata la lettera accanto alle rovine del castello potrebbe nascondersi per vedere cosa succede. Gli sembra un’idea tanto buona che si è già avviato.
Trallalero trallallà, canticchia.
Il cane Tommaso lo guarda passare con la sua grossa borsa di cuoio a tracolla e il berretto di sghimbescio, e il fumetto che si disegna sopra la sua testa è il seguente: «Il postino canta e sta andando da qualche parte; forse sta andando a una festa. Visto che oggi non ho proprio niente da fare, perché non ci vado anch’io?».
Detto, fatto. E così, appostati a debita distanza, possiamo vedere il Signor Postino che canterella e procede dritto seguito dal cane Tommaso. Il quale, come tutti i cani quando non vogliono dare nell’occhio, fa finta di niente.
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La povera Atti, tanto distratta da dimenticarsi di chiedere il nome a Paperello, siede intanto al tavolo della sua cucina. Ha sottomano l’elenco degli indirizzi di tutti personaggi più importanti del mondo, è certa che tra questi ci sia senz’altro anche quello del suo innamorato. Ma sono così tanti questi “importantoni” che si sente scoraggiata. Chiude tre nuove buste azzurre, sospira, guarda fuori dalla finestra: via libera, nessuna nube all’orizzonte. E così apre la porta, sbadiglia verso il sole, e si avvia in direzione del paese.
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Stanco di sentire tutto questo dolore al petto, stamattina Paperello è partito da casa sua e adesso sta scalando la montagna intenzionato a ritrovare il paese e la casa dove ha incontrato l’amore, ossia Atti. Nel negozietto sulla piazza comprerà una grande confezione di cacao amaro non zuccherato, zucchero e latte. Ma questo Paperello ancora non lo sa. Per il momento si sta chiedendo che cosa potrebbe regalare alla sua amata. L’idea degli ingredienti per la cioccolata gli verrà soltanto tra poco. Pertanto non distraiamolo: la salita lo sta mettendo a dura prova.
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Eccoci dunque… al dunque.
I nostri personaggi sono tutti in movimento, compreso il cane Tommaso (quasi tutti, cioè. Bertoletto e i suoi, infatti, dormono ancora).
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Ah, già che ci siamo… Del cane Tommaso si è parlato poco in questa favola. Vi posso assicurare, però, che se non avessi potuto contare su di lui, non avrei cavato un ragno dal buco. Cioè non sarei mai stata in grado di ricostruire con tanta precisione il corso degli avvenimenti. Il cane Tommaso, difatti, è l’unico capace di vedere i fantasmi. Dei quali non avrei, diversamente, avuto notizia. Ringrazio perciò ufficialmente il cane Tommaso per i servizi che mi ha reso. Senza di lui questa favola non sarebbe mai stata raccontata.
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… Ma noi eravamo arrivati al dunque.
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A questo punto bisognerebbe avere a portata di mano la piantina del paesino ino ino sperduto sulla carta geografica. Però non è possibile, perché questa vicenda è accaduta alcuni anni fa e ora il paese è cambiato.
Provate a immaginare una piazza. Piccina, s’intende. Su un lato, sullo sfondo ocra del municipio, campeggia una bella buca delle lettere rossa. Dirimpetto si può notare un negozietto con una sola vetrina piena zeppa di biscotti di tutte le forme.
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Perché? Mangiano molti biscotti nel paese di Atti? chiederà il più curiosone di voi.
Non posso negare che questo fatto abbia colpito anche me. Ma non saprei dirvi se il consumo di biscotti sia aumentato in conseguenza dei cioccolata-party di Atti oppure no. Credo che per capirci veramente qualcosa, bisognerebbe rivolgersi alla signora che gestisce il negozio. Ma lei (che tra parentesi si chiama Signora Clotilde) non è un personaggio di questa storia, e quindi preferirei non coinvolgerla, d’accordo?
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… Dunque Atti sta per imbucare le sue tre buste azzurre e Paperello sta per uscire dal negozietto della Signora Clotilde (tanto vale nominarla, adesso che la conosciamo).
Alzano gli occhi contemporaneamente e… non possono credere ai loro occhi.
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In quel momento tutto intorno a loro si fermò. Atti e Paperello si erano trasformati in statue. Le prime mosche della stagione ronzavano, un uccellino cinguettava sul ramo del platano di fianco al municipio, un camioncino che promuoveva sulle portiere una marca di caffè sconosciuta attraversò la piazza. Niente: Atti e Paperello continuavano a rimanere immobili.
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Che sia questo l’effetto dell’amore?
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Il primo a riscuotersi dalla paralisi che l’aveva colpito fu Paperello. Il sacchetto del negozio gli era infatti sfuggito di mano, cadendo a terra con un leggero tonfo e uno sssh! di zucchero che si spandeva sulla strada.
Acciderba, il regalo di Atti… pensò il giovanotto.
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Che cosa stava succedendo, intanto, nei pressi del maniero diroccato?
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Il plico rosa poggiava su un masso che molti secoli prima era stato parte della torre di guardia del castello. Sopra di esso poggiava una pietra, minuscola al confronto, che invece proveniva da uno stipite della porta di una delle tre cucine della fortezza.
Il Signor Postino si era nascosto dietro un lauroceraso. Il cane Tommaso si era prudentemente accucciato al confine con la casa di Atti.
Per festeggiare l’arrivo della primavera, Bertoletto e i suoi briganti, che si erano appena svegliati, stavano facendo colazione sull’erba.
I fantasmi videro quindi arrivare il Signor Postino e lo videro nascondersi dietro il lauroceraso. Il Signor Postino invece non vide proprio niente. Il cane Tommaso vide tutto: i fantasmi che si stupivano e il Signor Postino che cercava di nascondersi come meglio poteva.
Che Cinghiale si alzasse in piedi fu dunque la cosa più naturale di questo mondo: era o non era il luogotenente di Bertoletto, nonché l’aedo delle gesta passate, presenti e future di tutta l’allegra brigata?
Con fare circospetto si avvicinò al masso su cui poggiava il plico.
Finora, dal luogo di osservazione del Signor Postino, dietro il lauroceraso, tutto sembrava normale: nessuno in vista. Ma che faccia credete che abbia fatto, il nostro Signor Postino, vedendo la pietra cadere per terra e la lettera muoversi da sola in direzione del prato lì accanto? Non c’era un alito di vento, tuttavia il plico rosa stava seguendo una traiettoria precisa. A un certo punto si piantò in aria, a circa un metro e mezzo metro da terra. Poi venne lacerato e da esso sbucarono una serie di fogli.
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Di che colore?
Secondo voi?
Rosa?
Esatto, proprio così.
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Il Signor Postino aveva la bocca completamente asciutta; i capelli sotto il berretto gli si erano rizzati.
Il cane Tommaso osservò che era diventato verde.
Poi i fantasmi e il cane Tommaso lo videro stramazzare a terra.
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Quel che successe dopo è presto detto.
Cinghiale corse a preparare la valigia per raggiungere immediatamente Gran Dama Vitino di Vespa.
Bertoletto mise al corrente i suoi del progetto dell’agriturismo.
Il Signor Postino si svegliò dal suo lungo sonno perfettamente riposato. Pensò di avere sognato tutto, anche le buste azzurre, che da quel momento, infatti, nella buca delle lettere non ricomparirono più.
Il cane Tommaso fece un enorme sbadiglio, annoiato, e posò il muso sulle zampe anteriori pronto a schiacciare un pisolino.
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Da allora Atti e Paperello vivono felici e contenti nel paesino ino ino di montagna che non si trova in nessuna carta geografica. Quando ci sono nuvole in vista passeggiano carponi e si rotolano sull’erba profumata che circonda la loro casa. Atti scrive ancora ricette per bambini, dipinge, e organizza strepitosi cioccolata-party. Paperello disegna mappe del territorio in collaborazione con alcuni signori che ogni tanto passano a trovarlo e riesce anche a volare, come aveva sempre desiderato, benché con un deltaplano.
E questo mi pare sia tutto…
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Secondo me hai dimenticato qualcosa.
Uffa, il solito precisino. Chi sei?
Mi hai cacciato fuori dalla storia, ricordi?
Fantasmino! Da dove sbuchi?
Dalla tua penna, no? E comunque hai dimenticato qualcosa.
Vediamo: cosa posso avere dimenticato?
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Fu proprio in questo modo che Fantasmino divenne il mio SUGGERITORE UFFICIALE. Da allora si può dire che sia la mia ombra. Tre mesi fa, per esempio…
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Prima di cominciarne un’altra, devi concludere questa, di storia.
Uffa, che rompiscatole. Però Fantasmino ha ragione: ci sono ancora un paio di cose, che dovrei dirvi.
La prima è… che la ferrea regola di Atti è stata completamente deposta. Incredibile ma vero: da qualche tempo in qua la sua cioccolata può essere gustata anche…
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…Col cucchiaino?
Ebbene sì, ragazzi miei. Proprio così.
Evviva! direte voi. Era ora.
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La seconda è che Paperello, beh Paperello non si chiamerebbe proprio proprio così, come lo aveva soprannominato qualche tempo fa, in modo un po’ birichino, Atti.
Il vero nome di Paperello sarebbe… anzi è… beh che importanza ha, in fondo, sapere come si chiama per davvero?
A me piace ricordarlo così. E dopotutto, forse anche a voi.
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… E con questo credo di avere davvero concluso.
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Il mio SUGGERITORE UFFICIALE mi sta facendo segno di no.
Sapete cosa vi dico? Me ne infischio e me ne vado finalmente a zonzo per queste belle valli, lasciando che tutti i personaggi di questo raccontino s’incamminino ognuno per la propria strada. Se ne avrò notizia, non mancherò di riferire, statene certi.
P.S. In copertina: Domenichino, La fanciulla e l’unicorno, affresco, Roma, Palazzo Farnese, 1620 c.