Il poeta russo che preferiva i grandi negri (dal titolo italiano del suo primo romanzo, del 1979, It’s me, Eddie) è morto il 17 marzo di quest’anno. Se ne è andato un po’ in sordina proprio mentre il Covid-19 faceva il suo perentorio ingresso nella vita quotidiana di tutti noi, accaparrandosi tutte le attenzioni. Adesso lui, Limonov, è definitivamente fuori dai giochi, quelli letterari e quelli politici. Ma se fosse ancora qui, indossare una mimetica e imbracciare un kalashnikov non gli servirebbe comunque a niente. Non contro il Covid, per lo meno. Ma forse a lui, a Limonov, affrontare questa prima peste globale del terzo millennio, gettarvisi tra le braccia impavidamente, non avrebbe fatto più paura di tante altre avventure vissute al limite di ogni comune idea di temerarietà. Aveva certamente più orrore della prostatite, Eduard Limonov, che di qualsiasi altra malattia e morte. Purché conseguenti a «una vita libera e pericolosa: una vita da uomo».
Tra gli Adelphi la biografia romanzata di Limonov, al secolo Eduard Veniaminovič Savenko, scritta da Emmanuel Carrère, è un libro di culto. E per chi è abituato a stare nei ranghi è un libro sicuramente scorretto. Sullo sfondo ci sono l’Unione Sovietica e l’ex Unione Sovietica. Ovvero la Grande Madre Russia dal 1942 all’era Putin. Ci sono poi New York e Parigi. La ex Iugoslavia. La Cecenia. L’Asia centrale. Le famigerate prigioni di regime e il mondo dell’underground artistico russo (e pure quello warholiano della Factory). Ci sono miserie e ricchezze, in patria e fuori. Nuove mafie e oligarchi ̶ questi sviscerati soprattutto in patria. Ideologie discretamente fasciste se non del tutto nazi. Sesso disparato, droghe e innumerevoli Zapoj, le epiche maratone di ubriacatura russe alle quali questo romanzo ci introduce con tutti gli annessi e connessi, cioè vomito e cacate, furti, accoltellamenti e stupri, e quant’altro di pessimo si può intuitivamente immaginare accada a certi livelli di stordimento e abbrutimento alcolico.
Eduard Limonov?
Beh, lui del romanzo è ovviamente la star.
Limonov (pag. 353):
«È strano, però. Perché vuole scrivere un libro su di me?»
Emmanuel Carrère:
Sono colto di sorpresa ma rispondo, con sincerità: perché ha ̶ o ha avuto, non ricordo più il tempo che ho usato ̶ una vita appassionante. Una vita romanzesca, pericolosa, una vita che ha accettato il rischio di calarsi nella storia.
E a questo punto Eduard dice qualcosa che mi lascia di sasso. Con la sua risatina brusca, senza guardarmi:
«Già, una vita di merda».
Lo diceva lui, Limonov. E se lo diceva lui, doveva essere vero. Affari suoi, comunque. Valutazioni personali che chiunque ha il diritto, se crede, di fare e di rendere noto. Se però in questo libro tutto può essere opinabile, e lo è, andare a scavare in questo tutto opinabile vale la pena. Perché? Io dico: perché non è la solita sbobba.
Turba, infatti, trovarsi a fare i conti con un nazionalista (bolscevico) estremista, imprevedibile ed estroso, perfino dandy, che non rientra in alcuno stereotipo.
Dà fastidio, infatti, accettare il confronto e dover ammettere che sì, su parecchie cosette i tipi Limonov e Carrère ̶ quest’ultimo personaggio a sua volta, e neanche tanto secondario ̶ colgono nel segno.
Di base c’è, ed è questo che mi ha tenuto desta la lettura, che i conti non tornano mai… se stai dalla parte sbagliata. Se stai, intendo dire, dalla parte di chi rimane intrappolato nel tritacarne della Storia. Che tu sia nazionalista o tutto il contrario. E il nazionalista Limonov in questo, nel tenersi dalla parte sbagliata della Storia, si dimostra un campione. E non per sfiga, giammai! Bensì per una sua precisa scelta di campo, fatta se non subito, agli esordi, certamente rivendicata e lucidamente insistita nel prosieguo di tutta la sua esistenza.
Masochismo o eroismo? Se la domanda a questo punto è lecita, la risposta dipende dalle convinzioni (e/o convenienze?) dei singoli. A me, pur opinando, a me personalmente verrebbe da dire: chapeau, Mr Limonov!
Dal momento che mi piacciono le provocazioni, Limonov non può non intrigarmi. Perché è una di quelle provocazioni che stimola all’esercizio del senso critico, posto che se ne riscontri l’infiacchimento e si abbia ancora voglia di darsi una mossa. Detto questo, io mi ci sono appassionata specialmente per tutto quello che di spicciolo sul disfacimento dell’Unione Sovietica ci ho trovato: la vita della gente come me, comune, città e periferie, militari, delinquenti, artisti, puttane… Punti di vista, racconti dal di dentro, under the skin. Punti di vista che non sono certo quelli dei libri di storia sui quali ho studiato. La retorica dei vincitori. Le bugie dei vincitori. Perché alla faccia dei politicanti e degli intellettuali del momento, la Storia è più ricca, più interessante, molto più complessa degli slogan ̶ mantra da gregge ̶ che ci vengono propinati giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lustro dopo lustro… quanto dura, insomma, il breve arco della nostra breve vita.
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«Ho avuto una parte piccola in eventi molto grandi e so bene con quale rapidità i racconti di tali eventi diventino una sorta di specchio crepato» ha scritto Doris Lessing nel suo Sotto la pelle – La mia autobiografia 1919-1962.
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A questo proposito è esemplificativo, e molto indovinato, l’esergo che Carrère sceglie per il romanzo.
«Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore». Firmato: Vladimir Putin.
Un’altra provocazione, questa di citare Putin? Può darsi. Tuttavia costituisce, a mio avviso ̶ per quanto non mi vada affatto di confinare un’esistenza, qualsivoglia esistenza, entro un motto ̶ la migliore sintesi dell’esperienza di vita/politica di Eduard Limonov.
Emmanuel Carrère:
«Invece Éduard scrive, come Anna Politkovskaja, dei pamphlet in cui spiega che Putin non solo è un tiranno, ma un tiranno scialbo e mediocre, a cui è toccato in sorte un destino troppo grande per lui».
Che l’acredine di Limonov dipendesse dal fatto, come scrive ancora Carrère, che «la differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l’ha fatta»?
Se farcela significa essere un capo, allora sì, Putin ce l’ha fatta ed Eduard no. Dissento però dall’opinione di Carrère, perché nonostante le ragguardevoli dimensioni del suo ego, non credo affatto che Limonov volesse farcela nel senso di diventare un capo. Sebbene capo-capetto, figura di riferimento per molti, in Russia e fuori, lui lo sia indubbiamente stato, in fondo Eduard Limonov chiedeva soltanto una cosa: chiedeva di vivere. E vivere intensamente. Eroicamente.
[«Già, una vita di merda.»]
Se può valere qualcosa… Nel 2007, parlando dell’Asia centrale con Carrère, Limonov racconta di città come Samarcanda o Barnaul. Ci vivono un sacco di mendicanti, dice.
«Non si sa quale sia stata la loro vita, ma si sa che finiranno nella fossa comune. Sono senza età, senza beni, ammesso che ne abbiano mai avuti ̶ è già tanto se hanno ancora un nome. Hanno mollato tutti gli ormeggi. Sono dei relitti. Sono dei re.»
Ecco, credo che Putin abbia tuttora tutt’altre idee da queste. O no?
P.S. In copertina: Eduard Limonov (Evgenij Razumnyj / Vedomosti / TASS).