Se all’inizio sono stata colpita dal suo lavoro, quando sono arrivata al sito di Alexandra Drenth è stato proprio questo motto, che lei ha voluto come headline della sua home, a inchiodarmi definitivamente:
«nessuna fretta, il tempo è dalla mia parte».
È una dichiarazione programmatica che condivido. O meglio, che vorrei, che voglio condividere. Perché la riflessione sul “tempo”, sulla concezione e sull’uso del tempo, sta assumendo per me, in questi ultimi anni, un significato anche politico.
A chi appartiene veramente il nostro tempo?
A chi abbiamo demandato il compito di definirne il senso, e quindi il valore?
Alexandra Drenth è un’artista tessile che vive ad Amsterdam.
Realizza textile collages a partire da materiali di recupero.
Il ricamo è uno dei suoi strumenti.
[…]
… Dunque il tempo è un elemento costitutivo della sua attività.
Ma: quale tempo?
A questa domanda Alexandra risponde chiaramente: il tempo che sta cercando è timelessness, cioè una sorta di atemporalità.
Ed effettivamente tutto, nel suo universo artistico, sembra inscriversi in questo percorso di ricerca, che lei stessa definisce una «meditazione».
Sensibility, Mysticism, Silence, Experimental e, appunto, Timelessness sono le linee guida, e insieme gli obiettivi, che Alexandra Drenth si è data.
Ma non astrattamente.
Perché si tratta di modalità di vita e di lavoro da cui l’artista ha derivato scelte coerenti anche in merito al suo posizionarsi concreto nell’aggrovigliato mondo dell’arte.
Consapevole di utilizzare materiali che non sono propriamente popolari nonostante l’[apparente ndr] interesse suscitato dalla Fiber Art, Alexandra ha infatti deciso tenersi fuori dai gruppi e di partecipare a mostre e fiere d’arte solo su invito.
Art wants to tell a different story then money. Così dichiara.
Si può essere d’accordo o no, ma comunque la si pensi, la questione dell’arte contemporanea e delle sue connessioni con il mercato, ha varie sfaccettature. È un crocevia di argomentazioni che valgono tanto per gli addetti ai lavori, quanto per i sociologi o gli storici. Perfino per i politologi.
Come ciascun artista risolva (o non risolva) la faccenda del denaro – perché infine la partita si gioca individualmente anche in arte – è comunque per me, sempre, un fatto interessante da approfondire.
In merito, il background di Alexandra Drenth è lucido.
«In prima istanza faccio arte per me stessa, per il mio bisogno interiore di arrivare a uno stato di unità. Quando ci arrivo, allora posso comunicare con il mondo attorno a me.»
E ancora: Art in general is meaningless term.
«Alcune persone hanno davvero qualcosa da dire: l’arte è un canale che permette di proporre ad altri spunti e riflessioni fuori dagli schemi.»
Sono d’accordo. Per quella che è la mia esperienza dell’arte e della sua funzione, posto che si possa parlare di “funzione”, questa frase dice tutto l’essenziale.
Non sono invece altrettanto sicura di condividere l’idea di Alexandra circa il futuro dell’arte, e cioè che nell’avvenire ci sarà più rispetto per gli artisti che lavorano artigianalmente, senza l’ausilio delle macchine. Me lo auguro, ma non ci giurerei. Inoltre, ammesso e non concesso che robot e stampanti 3D possano davvero privarci delle “sensazioni” ovvero dei “sentimenti”, automi e nuove tecnologie sono espressione della nostra epoca. Alcuni artisti li sperimentano e li utilizzano da anni per proporci ugualmente una diversa visione del mondo. Migliore? Peggiore?
Per quanto mi riguarda, l’arte non sottostà ad alcun giudizio. Non ha regole. È.
P.S. Tutte le foto pubblicate sono di proprietà di ©Alexandra Drenth. Un grazie sentito all’Artista.