È il 6 gennaio. Lavoro a maglia, ma i punti non tornano: ho sbagliato lo schema un’altra volta. Disfo e ricomincio. Sono inquieta. In sottofondo mi arrivano le notizie di queste ultime ore e quando alzo gli occhi al televisore, Rai News24 sta mandando in onda le immagini del funerale del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 gennaio scorso da un drone americano all’aeroporto internazionale di Baghdad (con lui hanno perso la vita anche il generale iraniano Abu Mehdi al-Mouhandis, vice capo delle Forze di Mobilitazione Popolare, e altre sei persone, mentre diversi sono i feriti tra i militari iracheni e i civili). Il commento è della corrispondente Lucia Goracci e non lascia dubbi sul significato di quell’impressionante fiume nero che straripa nelle principali strade di Teheran: quel fiume nero invoca la vendetta e Ali Akbar Velayati, consigliere di Khamenei, non si lascia sfuggire l’occasione: cavalcando l’onda, promette all’America un nuovo Vietnam.
Il corollario degli avvenimenti è, almeno in parte, inaspettato: il parlamento iracheno ha chiesto l’uscita di tutte le truppe straniere dal Paese, mentre il presidente Trump fa sapere via Twitter che in caso di ritorsioni contro obiettivi americani, nel mirino ci sono già 52 siti iraniani – tra cui alcuni di interesse culturale – un sito, cioè, per ogni ostaggio catturato il 4 novembre 1979, durante la rivoluzione islamica, all’ambasciata USA di Teheran (gli ostaggi furono rilasciati il 20 gennaio 1981).
Intanto l’Iran – e questo si poteva invece metterlo in conto – ha annunciato che non rispetterà gli accordi sul nucleare del 2015.
Il prezzo del petrolio è sulle montagne russe.
Non è tutto. Leggo i giornali e ascolto i commenti degli esperti. Perché si sa, di “esperti” pronti a fornire una plausibile interpretazione dei fatti, tratteggiando possibili scenari, ce n’è in abbondanza, sempre e comunque.
Stamattina, 6 gennaio, qui in Baviera c’era un bel sole. Sono uscita in giardino e ho cominciato a pulire i vialetti, a rastrellare le foglie, che non mancano mai. Con dei blocchetti di cemento avanzati da una vecchia pavimentazione esterna, ho costruito un piccolo letto per le zucche nella zona più fresca e ombrosa di questo fazzoletto di terra. Le zucche mettono allegria, mi ricordano i libri di favole. E poi sono buone. Ragion per cui mi riprometto di concimare per bene il terreno con del letame, come da manuale, in modo da mettere a dimora le piantine per Pasqua, stagione permettendo. Ma progetto anche altro. Per esempio progetto di ridipingere la zona dove stendo la biancheria d’estate. Mi piacerebbe ridipingerla d’azzurro. Faccio avanti e indietro seguita dai gatti, che mi osservano e mi fanno compagnia. Faccio e faccio, e mi domando che senso abbia.
L’anno appena finito è stato un anno difficile, quello appena iniziato è iniziato malissimo. Non c’è solo il Medio Oriente, c’è il fuoco che devasta l’Australia. C’è un’Europa attonita. Un’Italia sempre più Italietta. C’è questa crisi economica che non finisce. Gli attacchi antisemiti. E… basta così. Ho l’impressione non solo che nessuno capisca veramente cosa sta succedendo ma, inevitabile conseguenza, che nessuno sappia veramente cosa fare. I politici. E la gente comune. Come me.
Certo, ognuno di noi può e dovrebbe fare la sua parte. In Italia, e precisamente in Veneto, ho per esempio un carissimo amico che fa la raccolta differenziata in modo talmente certosino che i suoi stessi condomini lo prendono in giro (e se ridono i suoi condomini, figuriamoci i mafiosi della ʻndrangheta che spadroneggia in quella regione così ben governata). È anche uno che ha sempre pagato le tasse fino all’ultimo centesimo e ora, da libero professionista, riesce a malapena a sopravvivere. “Incazzandosi” molto, si ostina però a fare ancora la sua parte. È come se avesse inserito il pilota automatico: «va tutto in malora, ma faccio quello che penso sia giusto», dice.
Ed eccoci al punto: che cos’è che è “giusto”?
Nel mio piccolo io per me lo so, quello che è giusto. Ma il mio giusto vale anche per gli altri? Al di fuori del mio piccolo, che cos’è che è giusto? E per passare ad altro ordine di grandezze, nel mondo contemporaneo c’è ancora posto per un’idea condivisa di giustizia?
L’uccisione di Soleimani sembra aver ricompattato l’opinione pubblica iraniana. Un collante, la sua morte, che rafforza il nazionalismo. Tutti gli attori in campo, quelli visibili e quelli dietro le quinte, si muovono in una spirale di odio e di violenza ammantati di “giustizia”. In quel fiume nero di Teheran, nei twitter del presidente Trump, di primo acchito io vedo e leggo “giustizie” che non mi è difficile ricusare. Mi rendo conto, però, che è troppo comodo, troppo facile liquidare giustizie che non condivido, ma nel cui humus, volente o nolente, sono cresciuta/siamo cresciuti e con le quali debbo/dobbiamo, anche solo per una mera questione di onestà intellettuale, accettare di confrontarci senza ipocrisie. L’esito è una maggiore consapevolezza, ma questa soltanto, perché il resto è un dibattersi a vuoto alla ricerca di soluzioni che non ci sono, né possono esserci per la molteplicità degli interessi e dei fattori in gioco, primo fra tutti il cinismo di chi non è disposto a rinunciare al proprio potere e ai propri privilegi. O magari anche solo agli agi, ormai tiratissimi per il ceto medio, di una vita piccolo-borghese (come ha spietatamente raccontato nel lontano 1974 Alberto Sordi nel suo Finché c’è guerra c’è speranza).
Mi sento impotente di fronte all’enormità della Storia. Disillusa. Perché anche se sono in molti a fare la loro piccola parte, la Storia non fa sconti a nessuno.
[E allora ripenso anche al concetto di “martirio”. Quando la Storia esige una scelta, l’individuo è sempre solo. Solo di fronte a un mitra, solo in una camera di tortura, solo dentro una cella, solo durante un raid, solo su un’autostrada minata col tritolo: solo di fronte alla sua morte.]
Mi pare che quello che non riusciamo più a sentire, qui in Europa, sia la sofferenza della Storia. Ma anche se non vogliamo prenderne atto, la Storia ci sta mordendo a pezzi e bocconi con azioni di accerchiamento, come uno stratega che aspetti soltanto il momento più opportuno per darci la mazzata che crediamo, chissà poi per quali ragioni, non possa arrivare fino a noi. Almeno questo è quello che sembra a me, che di sicuro “esperta” non sono, né in materia di Storia né di strategie. Da brava casalinga economa, so però una cosa: se in frigorifero ho della verdura e delle uova, le uso per fare una frittata. Così, sempre da brava casalinga economa, immagino sia anche per tutte quelle armi prodotte e acquistate in giro per il mondo, e per quegli arsenali atomici e nuove micidiali dotazioni annunciate, finora stivati da qualche parte, ma che prima o poi a qualcuno potrebbe venire il ghiribizzo di testare in grande stile – altrimenti non si capirebbe il senso di questa folle corsa agli armamenti come a chi ce l’ha più grosso – e mi si perdoni il francesismo.
[A questo proposito… Stando ai dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) pubblicati il 9 dicembre scorso, nel 2018 le vendite di armi nel mondo sarebbero aumentate del 4,6 per cento rispetto all’anno precedente, con in testa, per la prima volta dal 2002, le società produttrici di armi con sede negli Stati Uniti, Top 5 nella classifica internazionale.]
Il fatto è che qui non si tratta più di fare ciascuno la propria parte, ammesso e non concesso che questo comunque venga fatto. Qui si tratta di scegliere se vivere o morire. Perché se come razza umana decidiamo di morire, i mezzi non ci mancano e siamo ben avviati all’autodistruzione. Ma se decidiamo di vivere, allora si tratta di riprogettare a livello globale l’intero ecosistema [politico], e francamente, anche se la speranza non dovrebbe mai venire meno, ora come ora la vedo piuttosto dura. Anzi, a dirla tutta, non la vedo proprio per niente.
P.S. Copertina: Client: ADOT.COM. Campaign Title: Words Kill Wars. Advertising Agency: Ogilvy & Mather, Japan. Released: April 2014.