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Poteva esserci una via d’uscita? Forse sì.
La via d’uscita mi veniva paradossalmente indicata da un aggettivo, triviale, che Roland Barthes escogitò a proposito della positura dello scrittore.
«… trivialis è l’attributo etimologico della prostituta che aspetta nel punto in cui si incrociano tre vie…» scriveva il semiologo francese.
«Uno scrittore […] deve avere l’ostinatezza della sentinella che se ne sta al crocevia di tutti gli altri discorsi, in posizione triviale rispetto alla purezza delle dottrine.»
Ecco, prendevo a prestito le parole di Barthes ed evocavo per me un’immagine appunto paradossale: quella della prostituta all’incrocio delle tre vie.
Un’immagine maschile sulla quale mi ero interrogata a lungo.
Ma volevo uscire dagli schemi consueti e mettermi in gioco.
Sì, preferivo di gran lunga quest’immagine così lontana da me per indicare la posizione che intendevo assumere di fronte «alla purezza delle dottrine», ovvero in questo caso di fronte alla critica, che riprodurre il paradigma del potere: quell’assiomatico esercizio di soggetto e predicato cui non sapevo rassegnarmi anche in virtù del mio essere donna.
Non potevo dire di essermi salvata. Non ancora. Ma avevo afferrato saldamente il capo del laccio che mi stringeva e ora avevo chiaro almeno ciò che non volevo fare.
Come a scuola, tornavo a domandarmi: che cos’è la letteratura?
Mi interrogavo non già sul significato letterale di questa parola di derivazione latina che vuol dire “alfabeto” o “grammatica”, quanto sul senso che comunemente si dà a questo termine, ossia buoni libri da leggere, qualche volta testi illuminanti che hanno la forza di far saltare i nostri relè mentali.
Mi interrogavo sul concetto di arte.
Strano! Ovunque andassi a frugare, prima o poi mi capitava di incocciare nella parola piacere e in quella, spesse volte più suggerita che detta esplicitamente, di repulsione.
«Come possiamo mettere ordine in questo enorme caos e riuscire a trarre da ciò che leggiamo il piacere più intenso e profondo» si chiedeva Virginia Woolf in Come si legge un libro?
E da Il piacere del testo di Roland Barthes: «Il piacere del testo si può definire con una pratica (senza alcun rischio di repressione): luogo e tempo di lettura: casa, provincia, pasto vicino, lampada, la famiglia dove dev’essere, cioè lontana e non lontana (Proust nel gabinetto dagli odori d’iris), ecc. Straordinario rafforzamento dell’io (tramite il fantasma); inconscio ovattato. Questo piacere può essere detto: donde la critica.»
Piacere. E poi repulsione.
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È sufficiente ricostruire il contesto storico, politico e culturale entro il quale si forma e opera un critico per scagionarlo dal suo chiamarsi fuori in merito alle questioni del corpo?
Era questo un altro dei quesiti sui quali tornavo spesso.
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Consapevolezza e desiderio.
Per esempio era stato proprio leggendo il giudizio sull’opera di Caterina da Siena, formulato da Niccolò Tommaseo, che mi ero convinta che la riflessione sul corpo, al di là di ogni pur doverosa contestualizzazione del lavoro critico, perteneva in ultima analisi allo sguardo individuale.
Alla consapevolezza, al desiderio individuali.
Appunto.
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«Si potrebbe immaginare una storia della letteratura o, per meglio dire, una storia delle produzioni di linguaggio, che sarebbe la storia degli espedienti verbali, spesso molto dissennati, di cui gli uomini si sono serviti per vincere, domare, negare, o all’opposto per accettare ciò che è sempre un delirio, e cioè la fondamentale inadeguatezza del linguaggio e del reale» ha scritto Roland Barthes.
Era da quella consapevolezza, «la fondamentale inadeguatezza del linguaggio e del reale», che volevo partire; erano le «utopie di linguaggio» delle donne, The mother (s) of us all, che desideravo investigare.
Sceglievo per me la trivialità.
Solo la forza del paradosso, infatti, poteva intrigarmi.
Anche in letteratura.
P.S. Frammenti da: Santa Caterina da Siena ovvero il rifiuto dello specchio opaco (Digressioni sulla letteratura).
In copertina: Roland Barthes.