Fonte di ispirazione per molti artisti – nel caso del nostro Giorgio De Chirico una costante, dal 1917, della sua pittura – i manichini non hanno mai smesso di affascinare il mondo dell’arte.
Ancora l’anno scorso il concetto di manichino è stato ripreso e contestualizzato nel suo ambito forse più ovvio, quello della moda, in un interessante progetto espositivo curato da Matthew Linde alla Kunsthalle Bern.
Se Passageways: On Fashion’s Runway ricostruiva il divenire delle passerelle attraverso una nutrita serie di video dei designer più innovativi, in questo quadro il corpo “meccanico” ribadiva la sua variegata centralità: dai «manichini viventi» dei primi couturier fino all’odierno «carnivalesque body and the haunting of its commodity form».
Incursioni artistiche in questo ambito non sono mancate però, in questo inizio secolo, anche in Italia. Un nome per tutti, quello della videomaker Anna Franceschini, che dei manichini ha filmato la produzione, fase dopo fase, in un video sperimentale che deriva il suo titolo proprio dal materiale con cui gli “umanoidi” sono modellati, appunto il Polistirene (Bellaria Film Festival, 2007).
Serializzazione e omologazione di una umanità sempre più strategicamente mercificata: è l’impianto stesso del corto ad attestare temi e conseguenti riflessioni. Una produzione impietosa dove, come scrive la stessa Franceschini, «the best towards the best, the worst towards the nothingness».
Vanno invece in tutt’altra direzione i Quasi Umani della fotografa Elena Cantaluppi, in mostra per la prima volta allo Studio Bolzani di Milano. Mandando in frantumi tutti i cliché associati a questi manufatti simbolici, i suoi manichini sono infatti l’«espressione di un sentimento». Lo sguardo dietro l’obiettivo, sicuramente più prossimo alla poetica di artiste come Laurie Simmons ed Elena Dorfman, per esempio, che a quello, provocatorio, di Cindy Sherman o Vanessa Beecroft, è inaspettato: loro, i Quasi Umani «conosciuti» e fotografati in molti paesi del mondo, stanno sorprendentemente dalla nostra parte.
La prima osservazione che mi è venuta in mente, vedendo le sue foto, è che questi manichini non sono per niente asettici. Hanno volti espressivi, il trucco. E abiti, ovvio… Talvolta indossano addirittura delle parrucche…
Quello che mi sta dicendo, in effetti me l’ha fatto notare anche qualcun altro. Non saprei spiegarle perché ho fotografato proprio questo tipo di manichini, è stata una specie di attrazione fatale: mi piacevano. Non so se lei ci ha fatto caso… Ma già da qualche tempo, adesso non saprei quantificare… I manichini esposti nelle vetrine dei nostri negozi non hanno più un volto.
È una delle ragioni per cui mi sono interessata al suo lavoro. Generalmente abituata a considerare il manichino come un alter ego spersonalizzato, o magari come un feticcio da fare a pezzi, i suoi scatti mi hanno spiazzato. C’è del calore in questa sua proposta. C’è un rispecchiamento e c’è una distanza. Ma vissuti con leggerezza. Con pacata autoironia.
Quasi Umani è l’espressione di un sentimento al quale sono arrivata forse con la maturità: l’accettazione di quel “quasi” che ci riguarda tutti, cioè accettare di non essere perfetti. Che poi è la condizione umana, l’imperfezione… Quindi il manichino in una accezione positiva. Al limite, uno stimolo a migliorarsi.
Questa mostra è la sua terza in pochi anni. AcquadueO (2015) presentava fotografie dedicate all’acqua e ai suoi cambiamenti di stato. Poi c’è stata la flora, i fiori dell’Engadina. In questo percorso, Quasi Umani sembra uno scarto: dalla fotografia naturalistica a un soggetto che più artificiale di così non si può. Come mai, da quali suggestioni è partita?
È un progetto nato da solo, viaggio dopo viaggio.
Quelle che lei stessa definisce le impreviste «curve» della vita (i cambiamenti di stato dell’acqua) e poi la rinascita dopo ogni stretta (i fiori). Infine l’accettazione di quello che è, che siamo (i manichini)… Anche se apparentemente quest’ultimo appuntamento sembra essere in discontinuità con i precedenti, il filo conduttore che lei stessa rileva è chiaro.
Sì, ma non lo avevo pianificato. Probabilmente si è trattato di un processo inconsapevole che ho messo a fuoco soltanto a posteriori.
In Quasi Umani è riuscita a coniugare il suo amore per i viaggi con il piacere del dettaglio, la cifra della sua fotografia…
A ogni manichino ho dato un titolo, che è quello dell’aeroporto del posto dove l’ho fotografato. Perciò sì, ciascuno di loro è la testimonianza di un mio viaggio. Per quanto riguarda l’attenzione ai dettagli, è vero, è una caratteristica del mio modo di vedere, di fotografare. Mi soffermo, osservo e forse vedo particolari che altri non colgono. Certe volte ho il colpo d’occhio… Anche se è tutto molto soggettivo, naturalmente.
È per questa ragione che non ritocca le sue foto?
Giocare con la postproduzione è bello, il ritocco fa parte della fotografia d’arte. Personalmente, tendo però a non intervenire: per me la fotografia deve essere bella così com’è.
Tornando ai manichini… Come mi ha fatto notare lei, sono praticamente tutti bianchi, con tratti europei, a prescindere dal paese/continente dove li ha fotografati.
Sì, è curioso. L’unico manichino nero che ho trovato, l’ho trovato in Brasile, ed era un rasta. I manichini sono bianchi e hanno volti decisamente più simili ai nostri che a quelli orientali perfino in Cina.
Quasi Umani alterna dettagli e inquadrature più ampie. In alcuni scatti le vetrine in cui sono esposti i manichini riflettono il “fuori”. L’immagine che noi vediamo diventa allora un universo composito: il mondo esterno e “loro”, insieme. E qui si aprirebbe un altro capitolo sul chi guarda chi, chi riflette chi e che cosa…
Diciamo che nella mostra ci sono due filoni: quello dei dettagli, più introspettivo, e quello dei riflessi. Queste ultime, se si vuole, sono le foto più “artistiche”.
Lei è una persona molto schiva, non ha un sito e il suo profilo FB è praticamente disertato. Che rapporto ha con i social, oggi ritenuti indispensabili per la divulgazione della produzione artistica?
Capisco che i social possano essere utili, ma francamente non mi interessa. Trovo che se ne faccia un uso distorto. E poi, con quale ritorno?
Fotografa da sempre, come mai ha deciso di proporre il suo lavoro solo di recente?
Mi mancava il coraggio e anche la possibilità, le occasioni. È stata una mia cara amica, la scrittrice Sabina Colloredo, a incoraggiarmi, a dirmi che ne valeva la pena. Per questo la ringrazio, anche se la fotografia, l’arte in generale, è un ambito difficile. Specialmente oggi, con la crisi che stiamo vivendo… Con l’arte, con la fotografia non si vive.
Progetti in cantiere?
Sì, uno in particolare. Ma per una mostra ci vogliono almeno venti scatti. Quindi, finché non li avrò, preferisco non anticipare.
P.S. In copertina: Elena Cantaluppi, Pek-y (Cina), series “Quasi Umani”.