Quando tutto crolla: la Nigeria di Chinua Achebe

7 novembre 2018, ore 23.00

Sono seduta nella capanna di Ekwefi. La moglie preferita di Okonkwo mi sta dipingendo la schiena con legno di cam. Il mio ventre è un arabesco di disegni neri fatti con uli, di cui non so il significato. Ho i capelli corti, e quindi Ekwefi non me li intreccerà. Non potrò sottrarmi, però, ai canonici cinque giri di jigida, le cinture di perline che qui, a Umuofia, le donne portano alla vita come ornamento nei giorni di festa. Non c’è uno specchio. Ma dai sorrisi di Ekwefi e di Ezinma, sua figlia, capisco che sono soddisfatte del risultato. Del resto, a parte loro due, nessuno mi vedrà.

J.D. ‘Okhai Ojeikere (1930 – 2014, Nigeria), “Abebe”, 1975.

 

10 novembre 2018, ore 15.00

Il romanzo Il crollo (Things Fall Apart) di Chinua Achebe, uno dei padri della letteratura africana moderna in lingua inglese, è il primo della trilogia Dove batte la pioggia (gli altri due sono La freccia di Dio e Ormai a disagio). È stato scritto nel 1958 e racconta il devastante passaggio dalla fase precoloniale a quella coloniale in un piccolo villaggio di etnia ibo, Umuofia, nella parte orientale dell’attuale Nigeria. Come tutti i libri di spessore, presenta diversi piani di lettura e pone diverse questioni, non ultima quella della scelta della lingua, l’inglese appunto. Tutto ciò meriterebbe spazio e attenzione. Come spazio e attenzione meriterebbe lo stesso Chinua Achebe, di cui si dice che non gli sia mai stato conferito il premio Nobel per la sua manifesta ostilità nei confronti della cultura occidentale ed europea. (Il che non gli ha impedito, tuttavia, di ricevere numerosi premi e riconoscimenti in tutto il mondo.)

[…]

Il crollo mi sta mettendo in difficoltà, ma non riesco a individuare con chiarezza le ragioni del mio sfasamento. Credo che uno dei problemi, o delle opportunità, dipende dal punto di vista, a inquadrare questo libro, sia dato dal fatto che in contemporanea sto leggendo anche il saggio di geopolitica Nuovo emisfero asiatico di Kishore Mahbubani. Entrambi, il romanzo e il saggio, pur lontani nel tempo e geneticamente diversi, sono stati scritti da uomini appartenenti a culture totalmente altre da quella occidentale, che vedono e interpretano il mondo in una ottica non-occidentale. Ma che, a differenza di me rispetto a loro, la mia cultura la conoscono molto bene. Ci si sono formati. E l’hanno subita. Colonialismo, neocolonialismo, postcolonialismo: non sono nata ieri, la tiritera la conosco. Però no, in questo caso a mettermi a disagio non è il senso di colpa, la vergogna dell’occidentale posto di fronte ai suoi misfatti, alla sua ipocrisia, alla tronfia credenza di essere il portatore della cultura e della democrazia nel mondo…

Ade Adekola (b. 1966, Nigeria), “The challenger”.

14 novembre 2018, ore 22.00

È notte fonda. Gli egwugwu sono tornati nella loro casa sotterranea. Il villaggio di Umuofia è precipitato in un sonno pesante. Sgattaiolo fuori dalla capanna di Ekwefi per infilarmi di soppiatto nell’obi di Okonkwo. Sono una agbala, una donna: guai se mi trovassero qui! Ma sono una bianca. E vengo dal futuro. Forse potrebbero scambiarmi per un Ogbu-agali-odu, «una di quelle essenze malvagie sparse sul mondo dai potenti incantesimi che la tribù aveva fatto in un passato lontano, ma che ora aveva dimenticato come controllare».

Per farmi coraggio canticchio sottovoce la canzone che Ikemefuna si cantava nella mente quella notte… «Eze elina, elina! Sala Eze ilikwa ya…» Tasto ovunque, nel buio più totale. Percorro carponi tutto il perimetro dell’obi. E finalmente lo trovo: è nella sacca di pelle di capra, insieme alla fiasca di tabacco da fiuto, il corno e la zucca per bere. È legato con un pezzo di rafia al cucchiaio piatto di avorio che Okonkwo usava per portarsi il tabacco alle narici. Fuori dell’obi, la sua lama saetta un freddo bagliore lunare.

Victor Ehikhamenor (b. 1970, Nigeria), “The Raid of the Jolly Boys Social Club”, 2016.

18 novembre 2018, ore 6.30

Perché ieri sera ho immaginato di entrare nella capanna deserta di Okonkwo e di prendere il suo pugnale? Che significato ha avuto questo gesto, la furia omicida che montava? Nella mia cultura tutto ciò è esecrabile.

Njideka Akunyili Crosby (b. 1983, Nigeria), “Mother and Child”, 2016.

19 novembre 2018, ore 23.00

… Ma a Umuofia mi sento libera di essere me stessa. Non voglio, non potrei uccidere. Ma in questo villaggio della Nigeria, in un continente sconosciuto, posso mettermi a nudo. Posso tentare di spogliarmi della mia identità di occidentale “civilizzata”. (E non per indossarne un’altra.)

Uche James-Iroha (b. 1972, Nigeria), “Canon Ball Anti Progress Machine”, 2012.

20 novembre 2018, ore 22.00

Accucciata accanto al capanno delle capre, fisso il pugnale che è appartenuto a quello che Obierika ha definito «uno dei più grandi uomini di Umuofia». Non potrò mai capire il personaggio di Okonkwo. Tengo tra le mani il suo coltello, con l’indice della mano destra sfioro la micidiale lama. Eppure Okonkwo mi sfugge.

Mi incammino verso la Foresta Malvagia, il luogo dove sono relegati i corpi insepolti di tutti coloro che hanno osato violare le regole che il clan si è dato per onorare gli dei. Dove vengono sepolti i cadaveri di «tutti quelli che morivano di malattie malefiche, come la lebbra o il vaiolo». Dove sono confinati i suicidi e dove «venivano gettati i potenti feticci dei grandi stregoni quando morivano». Voglio seppellire il pugnale di Okonkwo… là.

Nike Davies-Okundaye (b. 1951, Nigeria), “Beauty is everywhere”, 2013.

21 novembre 2018, ore 16.00

Dopo avere compiuto il mio personale rito di inumazione nella Foresta Malvagia, sono tornata a casa, nel mio mondo, nella mia epoca. A mano a mano che i segni di uli sbiadivano sulla mia pelle, si faceva sempre più chiaro in me un convincimento: non riuscivo ad afferrare il personaggio di Okonkwo, perché Okonkwo, a conti fatti, mi piaceva. Era questo, che mi aveva tormentato per giorni: il fatto di essere attratta da lui.  Nella mia cultura questo non può essere.

Kadara Enyeasi (b. 1994, Nigeria), “Head”, 2017.

22 novembre 2018, ore 2.00

Il mio chi, il mio dio personale, ha detto vai. E così sono ritornata a Umuofia per respirare l’odore di questo angolo di Africa un’ultima volta. Mentre il villaggio dorme in attesa della festa degli ignami di domani, nell’ilo abbandonato io ascolto i rumori della notte e assisto alla danza delle ombre. Quando da lontano mi arriva l’eco del tuono di Amadiora, mi riscuoto. È tempo di congedarmi una volta per tutte. Al centro dell’ilo raccolgo un pugno di terra rossa, e mentre la spargo intorno a me a formare un cerchio, ripeto sottovoce per tre volte: Umuofia Kwenu! Umuofia Kwenu! Umuofia Kwenu!

Yaa! Yaa! Yaa! scandisce a pochi passi da me, guardandomi negli occhi, un uomo alto e imponente. È comparso nell’ilo all’improvviso, senza che me ne accorgessi. E mi ha già voltato le spalle. Mentre se ne va, i suoi talloni quasi non toccano terra, sembra muoversi su molle, pronto a balzare fulmineo su chiunque gli si pari davanti − Chinua Achebe lo ha descritto proprio bene. È dritto e altero, e vedo che è diretto alla Foresta Malvagia. Lo seguo. Seguo Okonkwo con lo sguardo fino a quando i contorni del suo profilo non si dissolvono nella pioggia scrosciante.

Chinua Achebe, Il crollo, Roma, I Leoni, Editoriale Jaca Book – Edizioni e/o, prima ristampa maggio 2006, pp. 215 (trad. it. a cura di Silvana Antonioli Cameroni).

N.B. Il lavoro scelto per la copertina di questo post è “orange scarf goes to heaven”, [2012], di Peju Alatise (b. 1975, Nigeria).

 

 

 

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