Piccoli parassiti, che non siete (stati) altro! Lettera aperta alla poetessa Patrizia Valduga

Gentile Signora Valduga,

ho letto il suo intervento sul «populismo culturale» che «continua a trionfare», pubblicato l’8 agosto scorso sul Fatto Quotidiano.

Premetto che sono una lettrice «da cesso» (sua colta citazione da Céline), una di quei lettori «occasionali e ignoranti» (queste sono invece parole sue) che probabilmente, anzi sicuramente, non sono in grado di vederci chiaro e fare i conseguenti, appropriati, distinguo «tra grande letteratura e letteratura d’intrattenimento».

Non voglio polemizzare con lei. Lungi da me, e comunque non ne avrei i titoli.  Con il suo pezzo, però, lei mi ha fatto riflettere ancora una volta – e questo è un merito – sulla letteratura: che cosa sia, a che cosa serva, se debba infine servire a qualcosa.

Nello specifico, arrivare a delle conclusioni mi è stato finora impossibile – non ho ancora capito se per onestà intellettuale o piuttosto stupidità. Una cosa, tuttavia, mi sembra di poterla affermare: e cioè che la letteratura, la musica, l’arte, non si pongono mai il genere di domanda e non si danno mai il genere di risposta che ha sentito il bisogno di farsi e di darsi lei, Signora Valduga.

Se così fosse, non avremmo arte, musica, letteratura: né grandi, né d’intrattenimento.

Per quanto nel mio piccolo, ho infatti potuto constatare che nel suo divenire l’arte non si fa domande, non si dà risposte. A quello ci pensano i critici di professione, cui stanno a cuore più che altro dei paradigmi e i mutamenti degli stessi. Oltre, sovente, al loro prestigio di cattedratici e intellettuali “di riferimento”.

Piero Manzoni, Merda d’artista, 1961.

Se lei a botta calda pare avere ragione, Signora Valduga, nel puntare il dito sull’«industria editoriale, che non ha mai saputo creare un pubblico di veri lettori», in realtà finisce col tradire la superficialità di cotanta sua accusa con l’uso di una semplice parola. Perché vede, ed è lei stessa a scriverlo: si tratta di «industria».

Non viviamo in un mondo perfetto, Signora Valduga, viviamo in un mondo governato dalle Borse, dalle Speculazioni, dal Denaro.

Ahimè, non è un mondo per poeti!

Dietro la sua facile critica all’industria editoriale si celano problemi complessi, oserei dire globali, molto concreti e di non facile soluzione, che hanno attinenza per esempio con le rivoluzioni tecnologiche dei modi della comunicazione, della veicolazione di contenuti, e dunque della scrittura e della lettura… tutte questioni che personalmente non mi sentirei di liquidare con tanta approssimazione, scaricando la responsabilità di cambiamenti epocali solo sulle spalle di grandi case editrici come Einaudi o altre, che in ogni caso, se non ho letto male, l’hanno comunque spesso pubblicata.

Orson Welles nel trailer de La signora di Shanghai (1948).

Proseguendo nella lettura del suo scritto, mi imbatto in staffilate varie.

Contro Umberto Eco, reo di «azzeramento tra genere colto e genere popolare».

Contro Milano e  Roma, città colpevoli di parecchi misfatti, tra i quali cito, per brevità, soltanto i seguenti due:

1) l’avere intitolato una casa ad Alda Merini, «incarnazione di una poesia che è quasi la negazione della poesia» (a Milano)

e

2) l’avere intitolato l’Auditorium a Ennio Morricone, «paragonato a Beethoven e a Mozart» (a Roma).

Ho accennato solo alla Merini e a Morricone, a titolo di esempio. Ma lei, Signora Valduga, fa coraggiosamente il nome di parecchi altri (la maggior parte defunti), di cui si spinge a dire, altrettanto arditamente, che grandi «magari lo sono anche, nel loro genere; ma ricordiamoci che il loro genere è piccolo».

Arrivata a questo punto non posso fare altro che inchinarmi alla sua invidiabile lucidità: cosa è grande e cosa non lo è, lei lo ha capito benissimo. Ragion per cui, giustamente, ha facoltà di scegliere.

Io invece, da buona lettrice «da cesso», continuo a perdermi dietro a cose molto differenti tra loro. Il che, mi rendo conto, mi pone su un piano ben lontano dal suo. Un livello, il suo, che mi figuro temprato esclusivamente da sostanziose letture, a suo tempo accreditate di sicuro anche da Luigi Baldacci e Paolo Volponi.

Io come Umberto Eco «posso leggere la Bibbia, Omero o Dylang Dog per giorni e giorni senza annoiarmi», lo confesso. Sebbene, purtroppo, non sia in grado di applicarmi con lo stesso acume e le stesse capacità del fu semiologo (eccetera eccetera) piemontese.

https://www.lospaziobianco.it/graphic-novel-1-maus/

In Come si legge un libro? Virginia Woolf (ma sarà poi “grande”, la Woolf?)  si domandava:

Come possiamo mettere ordine in questo enorme caos e riuscire a trarre da ciò che leggiamo il piacere più intenso e profondo?

Ah, l’impareggiabile Virginia! Una parolina, pia-ce-re, ed è subito un gran botto. Tutto deflagra. Virginia Woolf scova infatti quella parola, «piacere», che forse potrebbe essere d’aiuto anche a lei, per le sue future valutazioni letterarie, Signora Valduga. Ammesso e non concesso che la cosa, naturalmente, possa in qualche maniera guadagnare il suo interesse.

Prima edizione illustrata (1883).

Tornando al suo articolo…

«in nome di dio… lasciamoli in pace Omero, Mozart, Beethoven, la Dickinson e tutti gli altri, non mischiamoli ai loro piccoli parassiti, non nominiamoli neanche.»

Ha scritto proprio così, Signora Valduga.

E sono parole grosse. Indubbiamente.

Poco più sopra l’aveva messa giù ugualmente dura:

«… i beniamini del pubblico, i popolari, i piccoli e i tanti fasulli – che poi non sono che scopiazzatori, volgarizzatori e banalizzatori dei grandi – sono sempre al passo col loro tempo, spaccando il minuto, mentre i grandi non sono mai in sincronia con il loro tempo, sono sempre sfasati, arrivano “prima” e sono riconosciuti “dopo”.»

Mi permetta, Signora Valduga – e mi scuso per questa che può sembrare una mancanza di rispetto – ma mi pare che lei in questa frase abbia condensato una serie di banalità .

Vorrei farle notare unicamente quanto segue:

  • fortunatamente molti “grandi” trovano riconoscimento anche in vita. Fulgido esempio ne è Dante, la cui Comedia o Commedia, scritta in volgare (toscano, fiorentino letterario) e non in latino, lingua della cultura ufficiale del tempo, ebbe subito uno straordinario successo popolare (gente comune, probabilmente quasi sempre analfabeta, nemmeno lettori «da cesso».)
  • per quanto riguarda invece la faccenda dello scopiazzare, preferisco glissare sulla mole di tomi sull’argomento, assai illuminanti in tema di scimmiottamenti da parte degli artisti, soprattutto “grandi”, di ogni epoca.
Picasso, Les Demoiselles d’Avignon (dettaglio), 1907, e due maschere africane.

Ha detto Picasso:

Sopravviveranno le opere che nel silenzio piacciono: quelle in cui non c’è bisogno di spiegare.

Le introduzioni hanno dovuto giustificare le nuove professioni di tendenza che oggi contaminano il sistema dell’arte. È accaduto improvvisamente, quando verso la metà del Novecento il sistema economico-sociale ha caratterizzato la proprietà privata attraverso i mezzi di produzione, condizionando così inevitabilmente la creatività e il gusto del mercato, trasformando un pittore in un operaio intellettuale.

In pittura vinceranno i primitivi che si presentano da sé comunicando attraverso la libertà creativa. Ecco perché considero il doganiere Henri Rousseau il più grande pittore del nostro tempo.

Cosa ne dice, Signora Valduga, lei che sa così ben districarsi tra «musica e canzonette» e «arte e simil-arte»?

Che Henri Rousseau, detto il Doganiere, sia stato «il più grande pittore del nostro tempo» era opinione di Picasso, non la mia, frequentatrice occasionale e ignorante del mondo dell’arte e della letteratura. Tuttavia l’opinione di Picasso (lo Spagnolo sarà stato un “grande”?) merita, a mio avviso, un minimo di attenzione. Dà adito a così tanti spunti… Non pare anche lei?

Bob Dylan. Nel 2016 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura «for having created new poetic expressions within the great American song tradition».

Concludo ringraziandola per la traduzione dei versi di Baudelaire a chiusa della sua invettiva.

«È Baudelaire, che traduco per voi lettori…» ha testualmente scritto.

Di nuovo grazie, Signora Valduga. Perché se questo è il portato di una formazione culturale “alta”, leggere le sue righe è stato davvero gratificante.

In quanto a spocchia, infatti, non si finisce mai di imparare.

Buon Ferragosto e… buone letture!

P.S. In copertina: Andrea Camilleri.

2 commenti

  1. Daniela
    Febbraio 8, 2021

    Credo che, in estrema sintesi, per la Valduga (il cui articolo non ho peraltro letto)… o Raboni o morte. Insomma, ha una sua innata tendenza all’idolatria per un verso ed al disprezzo per un altro, sicche’ non viene facile ragionarci. Ma. Che la letteratura contemporanea pulluli di mediocrita’, colpevolmente allevate nelle scuderie delle case editrici… lo penso da molto tempo. Non e’ certo questione di genere e nemmeno di dove si sta piu’ comodi (al cesso o sull’amaca), e’ che il talento e’ una cosa seria, un distillato raro, una roba che volenti o nolenti fa da spartiacque. E, dopotutto, il bello e’ proprio che faccia spesso difetto, che sia di pochi. Diciamo che se il pensiero critico fosse piu’ frequentato non sarebbe male, cosi’ da riconoscere meglio e prima chi con il suo lavoro crea valore aggiunto. Discernere e’ un bel traguardo, fa da ombrello, ci evita potenzialmente tanta banalità.

  2. Emanuela Scuccato
    Febbraio 9, 2021

    Sono d’accordo: la letteratura contemporanea… Tuttavia quello che mi ha infastidito nel pezzo della Signora Valduga è stata l’arroganza di di chi sa o crede di sapere, e quindi si erge a giudice. Personalmente credo di essere sia molto ignorante rispetto a tutto quello che ancora ho da conoscere sia, al contempo, abbastanza in grado di farmi un’idea di quello che sto leggendo (o vedendo o ascoltando) al di là di qualsivoglia schema di pensiero altrui. Perché? Perché siamo tutti diversi, non tutti abbiamo le stesse esigenze e gli stessi gusti o anche lo stesso background (o allenamento o interesse) “culturale”. Preferisco il confronto ai diktat. Sempre. Inoltre, se proprio si intende porsi in modo perentorio, alle proprie critiche sarebbe bene far seguire perlomeno qualche idea, meglio se buona. Oggi come oggi, lavorare nell’editoria è sempre più complicato. E non solo nell’editoria. Governare la complessità a colpi di paradigmi è, a mio avviso, errato e… pericoloso. Grazie per avere condiviso il suo punto di vista.

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