La cena

Francesca Woodman, “Self-deceit 1” e “Self-deceit 6”, Roma, 1978.

Riconoscendo lentamente le forme consuete della sua cucina gialla, stesa sul divano azzurro

– cotone Canapone –

Emma  avvertì che qualcosa era totalmente fuori posto.

La luce della lampada d’angolo alle sue spalle, schermata da un paralume giallo senape, era accesa

– la palette dei gialli era alquanto varia in quella cucina gialla, a eccezione del soffitto a travi di rovere e tavelle tra il rosa e il rosso –

ed era tardi, decisamente tardi. Questo, l’orologio a muro appeso alla parete di fronte a lei, in alto a destra, lo indicava con precisione. Era l’una e venti.

Era l’una e venti ed Emma percepì la sua schiena infossata nella profonda fenditura tra i due grandi cuscini del divano. Era una posizione scomoda. Era come se il suo corpo fosse tagliato in due. Puntando i gomiti, provò a sollevarsi.

Perché era nuda, nuda dalla vita in giù?

Schizzi vischiosi sul ventre e sulle cosce.

Fu la tenda dirimpetto

– quanto le erano piaciuti quei graziosi tralci impressi sul percalle –

a terrorizzarla.

La tenda della portafinestra che affacciava sul solitario viale di campagna era spalancata sulle sue gambe divaricate, sui suoi piedi che sporgevano dal bracciolo del divano.

Che razza di spettacolo si sarebbe presentato a chi, passando da quella stradina fuori mano, battuta di giorno da contadini e pescatori, ma di notte pure da bracconieri, fosse stato incuriosito dalla luce di una lampada giallo senape, ancora accesa a quell’ora?

Emma si riscosse.

Vergogna.

Paura.

Mettersi al sicuro.

Mettere al sicuro la palette dei gialli, il divano azzurro.

Chiudere a doppia mandata la porta a vetri

– aperta, senz’altro aperta.

Tirare le tende

– ovunque.

Subito.

Fallo subito.

Emma schizzò come una molla. Bloccò la portafinestra, sbarrò le tende.

Si sentiva sporca. Tutto, intorno a lei, era sporco. Il divano era stato violato

– tracce di bava imbrattavano l’azzurro del secondo cuscino a destra fin sotto il bracciolo –

e i suoi vestiti erano ammucchiati sul pavimento, in  mezzo alla cucina. I collant, gli slip… la sua gonna nera…

un cencio.

L’una e quaranta.

In bagno

– un universo cilestrino che rispondeva alla legge del pantone inglobando asciugamani e accessori rigorosamente compresi tra questa sfumatura e il verde acqua –

la spia dello scaldabagno elettrico era spenta, lo scaldabagno era staccato.

Emma accese la luce sopra il lavabo, si accucciò sul bidè e fece scorrere l’acqua. Con la mano destra a coppa portò una prima sorsata al ventre. Continuò a ripetere il gesto. Piccole ondate fredde che dalla pancia scivolavano fino al pube e poi giù, sulla linda porcellana bianca.

Lo scaldabagno. Quanto tempo ci sarebbe voluto per una doccia? Due ore?

Pressoché simultaneamente il cervello di Emma organizzò l’attesa.

Sigillare biancheria e gonna in un sacchetto della spazzatura

– lo butterò domani in un cestino dei rifiuti da qualche parte.

Intervenire immediatamente sulle macchie del divano con acqua e ammoniaca prima che, asciugandosi, lo danneggino

– a passare l’aspirapolvere e ad arieggiare i cuscini ci penserà Rosa.

Lavare i piatti

– il tavolo è un macello.

Spazzare il pavimento e passare il mocio

– anche di questo potrà occuparsi Rosa domani. Domani mattina. Domani mattina mentre sono in ufficio.

In ufficio.

Il lavoro.

Al pensiero del lavoro lo scanner mentale di Emma si inceppò.

La mano destra chiuse macchinalmente il rubinetto. Per un poco l’acqua del bidè continuò a scorrere. Poi divenne un filo. Poi basta. Emma si alzò, finì di spogliarsi e indossò l’accappatoio color acquamarina appeso al gancio dietro la porta del bagno.

Il lavoro.

Doveva riordinare la cucina, lavarsi, scegliere l’outfit giusto per la presentazione

– il budget, domattina in città si sarebbe discusso del budget per il progetto che lei, lei col suo team, aveva costruito passo per passo –

e naturalmente truccarsi in modo consono.

Truccarsi? Non ci aveva mai pensato. Prima. Truccarsi veniva da “trucco”? Significava creare un’illusione per sé e per gli altri? Emma si ripromise di cercare l’etimologia della parola su Google. Non adesso, però, e infilò la spina dello scaldabagno nella presa.

Non perdere tempo, si disse.

Quindi riempì d’acqua il catino bianco che utilizzava per lavare l’intimo quotidiano, prese la spugna che teneva sempre a portata di mano per asciugare il lavabo e a piedi nudi passò dal bagno alla cucina attraverso il vestibolo che li separava

– un verde menta decisamente fresco.

Lì, sotto il lavello, dove immaginava la tenesse Rosa, recuperò la bottiglia di ammoniaca, ne prelevò tre tappi, li diluì nell’acqua, si inginocchiò davanti al divano e prese a strofinare le macchie facendo attenzione in particolare ai bordi, dove cominciavano già a spuntare irregolari segni biancastri.

Sarebbe riuscita a farli scomparire? si chiese Emma.

Le due e dieci.

Le macchie sul cuscino vicino al bracciolo andavano via via prendendo la forma di ampie chiazze umide. Emma passò e ripassò la spugna sciacquandola spesso, finché l’azzurro del cotone non assunse una connotazione profonda, blu marino.

Forse a questo punto poteva smettere, pensò.

Smise.

In bagno vuotò nel WC l’acqua del catino e, dopo averla accuratamente lavata, ripose la spugna piegata in quattro accanto al dispenser del sapone alla lavanda.

La luce che illuminava lo specchio era ancora accesa. Senza averlo cercato, Emma incontrò il suo riflesso. Il viso appariva stropicciato, le occhiaie vistose.

Non aveva digerito, ovvio.

E il vino, un Nebbiolo Doc

– note speziate di fiori rossi e violacei e sentori terrosi –

sì, lo aveva apprezzato. Magari un po’ troppo. Due bottiglie, elegantemente confezionate in un cofanetto rivestito di juta, accompagnato dal cartoncino di una rinomata enoteca cittadina, erano state un omaggio a cui neppure una quasi astemia come lei aveva potuto sottrarsi.

Una maschera!

C’era comunque da fare i conti con il fatto che a quell’ora, anziché essere a letto, stava facendo la spola tra bagno e cucina. Che faccia avrebbe potuto avere, se non questa?

A proposito, che ore si erano fatte?

Le due e quaranta.

Toccava ai piatti.

Sul tavolo

– legno massello tre metri per uno –

aleggiava un odore greve, di brasato misto a funghi porcini e purè di patate. Ci volle un attimo perché Emma identificasse pure quell’altro odore, un afrore in grado di rendere pestilenziale tutto ciò che in cucina si sarebbe di norma detto profumo.

Com’era potuto accadere che un mozzicone di sigaretta venisse spento su un Richard Ginori floreale, eredità di famiglia, su un velo di sugo? Emma era nauseata.

Vincendo il disgusto, dopo avere infilato un paio di guanti di gomma giallo limone

– chissà mai perché i produttori li facevano quasi sempre gialli, i guanti da cucina, giallo limone –

Emma si diede a catalogare il caos del tavolo.

Dunque.

Strozzò il mozzicone in uno Scottex, raggruppò gli avanzi sul piatto grande da portata, impilò il resto dei piatti, raccolse le posate.

Poi via, tutto a mollo nel lavello, in acqua calda e sapone di Marsiglia più bicarbonato

– e comunque non posso fare diversamente, con quest’unto la lavapiatti è fuori discussione.

Decise di occuparsi dei calici Riedel per ultimi, a parte, dopo avere cambiato l’acqua.

La tovaglia di Fiandra…

– per ora posso solo passare del sapone da bucato sulle macchie di vino e di sugo, e aspettare che agisca. Sperando che se le divori, queste patacche, e non lasci aloni, almeno me lo auguro.

Emma eseguì ciascuna operazione con metodo. Quando infine ripose asciugapiatti e tovaglia nel cesto da trasferire in lavanderia, l’orologio segnava le tre e venti.

Con la schiena poggiata al frigorifero

– un totem Smeg giallo sole –  

si voltò a controllare il divano, dove il blu carico non accennava a schiarire. Ma è passata soltanto mezz’ora, giustificò, cosa pretendo?

Stando ai suoi calcoli, anche per l’acqua dello scaldabagno occorreva mettersi l’animo in pace, perché non sarebbe stata pronta prima di un’ora. Si sentiva talmente stanca… Forse poteva stendersi un po’ sul letto? No, meglio di no. Addormentarsi adesso, solo per un’ora, significava svegliarsi totalmente disfatta. Visti gli impegni di domani, anzi di stamattina, non poteva permetterselo. Un caffè, ci voleva un caffè.

Seduta a un capo del massiccio tavolo, su una Hola 367 eccezionalmente rosso ocra

– un pezzo di design che si era concessa al ritorno dall’ultima trasferta in Svizzera per conto di una prestigiosa azienda con cui collaborava –

la moka sul fuoco, il cervello di Emma si sforzò di riesaminare i punti salienti della presentazione PowerPoint in programma oggi. Voleva che l’esposizione risultasse il più possibile naturale, esente da enfasi, così da renderla convincente di per sé, sebbene sapesse già che, come sempre, a prescindere dagli accenti usati, a decidere sarebbero stati i dati economici: investimenti e ricavi. Sapeva anche che, ad ogni modo, la presentazione necessitava di un packaging. Il packaging era il suo biglietto da visita, il primo impatto degli investitori con il suo progetto. La carta regalo doveva colpire, e doveva colpire nel modo giusto. Emma doveva offrirsi al suo pubblico

– maschile –

con professionalità

– senza  tuttavia mostrarsi troppo sicura –

e anche con un certo ossequio.

Il packaging era lei. E doveva invogliare.

Il borbottio della caffettiera la distolse dai suoi pensieri, di cui si rese conto come riemergendo dal dormiveglia

– la mente aveva infatti divagato, perdendo di vista lo scopo iniziale.

Emma cercò un bicchiere di quelli da acqua nel buffet in teak addossato alla parete di fronte al divano e vi versò l’intero contenuto della moka da tre.

Il bicchiere scottava

– era un dato di realtà.

Lei invece fluttuava. Il lavoro, questa tremenda stanchezza… E poi Rosa. Di sicuro Rosa le avrebbe chiesto del divano. Cos’era successo al divano? Non era di certo tenuta a dare delle spiegazioni a Rosa, la donna a ore che veniva ad aiutarla dal paese. Forse poteva raccontarle di averci incidentalmente rovesciato sopra dello yogurt, tanto per dire… Ma sì, avrebbe detto proprio questo. D’altro canto la cucina era abbastanza in ordine, non c’era motivo di temere domande inopportune. A parte il divano, tutto si presentava più o meno come al solito.

Dieci minuti alle quattro.

Da fuori arrivò smorzato il canto di un merlo. La notte non cedeva ancora le armi, ma l’alba si approssimava preceduta dai trilli dei suoi alfieri, guadagnava terreno.

Emma tornò a sedere e centellinò il caffè. Le restavano due ore prima di mettersi in macchina. Se fosse partita abbastanza presto, avrebbe evitato la coda in tangenziale. Anche se non si poteva mai dire, pensò, ormai da anni le tangenziali erano un terno al lotto.

Che brutta sensazione!

Quel qualcosa che svegliandosi qualche ora prima aveva sentito del tutto fuori posto, quel qualcosa era risbucato all’improvviso. La casa, gli oggetti l’avevano tenuta occupata. Il buio le aveva fatto da tana. Emma aveva il presentimento che ora, con la nuova luce, non le sarebbe stato possibile sfuggire al malessere che le si stava aggrovigliando dentro.

Cos’era, esattamente?

Non riusciva a incasellarlo. Le sembrava un vuoto. Il vuoto fragoroso che fa seguito a uno stupore. Quello stesso stupore che prova un bambino quando, dopo avere condiviso col suo migliore amico ogni segreto, tante avventure, un giorno sia deriso, spintonato, buttato a terra proprio da chi fino a quel momento aveva considerato un fratello.

Una volta Emma aveva vissuto un’esperienza così. Da piccola. Ricordava di essersi sentita sprofondare per la vergogna mentre Elisa la prendeva in giro davanti a tutti e rideva di lei. Non si era difesa, non ne era stata capace. Non aveva nemmeno pianto

– lo smarrimento era stato troppo grande in quel frangente.

La rabbia, le lacrime erano venute dopo, a casa, di nascosto, perché la sua delusione e la sua umiliazione erano una colpa di cui gli altri non dovevano sapere.

Un rombo attutito

– la provinciale oltre i vigneti cominciava ad animarsi.

Emma scacciò infastidita il ricordo di Elisa e decise di fare altrettanto con questo insulso turbamento. L’orologio faceva le quattro e un quarto.

Emma si alzò, sistemò con cura la sedia sotto il tavolo, lavò e asciugò il bicchiere del caffè, lo rimise al suo posto nel buffet e si avviò verso il bagno.

All’altezza del vestibolo un bip la bloccò.

Era il suo iPhone? Che domanda stupida, si disse Emma. Non poteva che essere il suo, di iPhone, visto che in casa non c’era nessun altro. Dove l’aveva ficcato, però? Guardò in giro. Sul buffet, il tavolo, il piano cottura, le sedie. Passò perfino una mano tra i cuscini del divano. Niente. Dove poteva essere? Forse in borsa? Ma sì, la borsa… Perché non ci aveva pensato subito?

Emma tornò sui suoi passi. La borsa

– una sobria ma iconica Half Moon, perfetta in ogni circostanza –

pendeva dall’attaccapanni a muro del vestibolo.

Però.

Un messaggio a quest’ora?

Di lavoro non può essere, realizzò.

Un crampo allo stomaco.

Mentre con la mano sinistra si reggeva allo stipite della porta del vestibolo, con la destra Emma si premette lo sterno. Le veniva da vomitare.

Dalla finestra del bagno adiacente, che aveva lasciato socchiusa, filtrò un concerto di cinguettii. Un coro di merli, tordi, pettirossi, e chissà quale altro pennuto, era già al lavoro. Delimitare il territorio e cercare di conquistare una femmina: gli uccelli comunicavano tra loro con un codice che gli umani, travisando, credevano fosse per il loro diletto. Per un istante Emma immaginò quanto sarebbe stato bello esprimersi in quella lingua, sbarazzarsi una volta per tutte dei tranelli della sua.

Non voleva leggere il messaggio.

E tuttavia voleva.

Testa o croce?

Non avendo sottomano una moneta per affidare al caso la scelta, Emma agì d’impulso. Optò per la seconda possibilità.

Il messaggio era lapidario. Diceva: “Piaciuto il Nebbiolo, eh”. Seguiva un emoticon. La faccina che ride fino alle lacrime.

Tuttora accesa, la lampada senape rivelava le screpolature del muro a lato del frigorifero. Una leggera sfarinatura sbiadiva il battiscopa tracciando tra questo e il cotto del pavimento una riga chiara. Erano le quattro e trenta.

Erano le quattro e trenta ed Emma fissava il muro che si andava scrostando. Non provava niente. Stava lì, in piedi, come se un fulmine l’avesse colpita, paralizzandola.

Tum-ta, tum-ta, tum-ta

– l’eco dei battiti del suo cuore.

Tum-ta, tum-ta, tum-ta…

… Finché l’urgenza di uno spasmo non la precipitò in bagno. Sollevato il coperchio della tazza, Emma rigettò una boccata di liquido verdastro, e subito dopo un’altra. Accasciata a terra, debilitata, attese a occhi chiusi la prossima contrazione, ma non successe più nulla. Allora, aggrappandosi al lavabo, si tirò su, aprì il rubinetto e si sciacquò la bocca.

Un quarto alle cinque.

Emma spalancò la finestra del bagno. Respirò a fondo l’umidità dell’erba che saliva dalla terra, il profumo delle acacie che si spandeva nell’aria. La notte era lattescente, i grilli cantavano ancora.

Indugiò.

Attimi.

Quindi con calma, quasi con dolcezza, richiuse i vetri sull’albore del nuovo mattino. Mentre tirava le tende, i fiori di prugna stampati sul popeline verde melo le parvero nuovamente molto chic. Si armonizzavano con l’ambiente definendone lo stile

– francese –

votato al colore. Il suo preferito in assoluto.

Si disfò dell’accappatoio acquamarina e dopo averlo appeso al solito posto, al gancio dietro la porta del bagno, s’infilò nella doccia e miscelò l’acqua.

No, a quel messaggio non avrebbe risposto.

Era tutto in ordine, procedeva tutto secondo la sua tabella di marcia, si disse.

Poi, sotto il tiepido getto dell’acqua, si concesse di piangere.

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