Covid-19 e votazioni: lezioni europee (e italiane)

Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.

Italo Calvino, Lezioni americane, 1988.

Sono giorni concitati. Dall’Italia arrivano notizie che mi allarmano – e come potrebbe essere altrimenti, dal momento che la mia famiglia è distribuita nelle tre regioni più a rischio di contagio da Covid-19, cioè il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna?

L’apprensione che tendenzialmente razionalizzo, si acuisce a confronto con quanto sta accadendo invece qui, in Germania.

Nei telegiornali della sera, quelli più seguiti, il Coronavirus è passato fino a ieri, 3 marzo, come una delle notizie, ma non certo quella in primo piano.

(L’apertura, ieri sera, era focalizzata sulle frontiere greche, «scudo dell’Europa», alle quali si stanno ammassano le migliaia e migliaia di profughi che Erdoğan si rifiuta di gestire.)

Diciamo che rispetto all’Italia il Covid-19 viene mediaticamente trattato molto sottotono, sebbene l’Istituto Robert Koch (RKI) informi che i casi di infezione sono stati confermati in tutti gli stati federali.

A tutt’oggi (4 marzo, h. 18.00) sono complessivamente 262 (74 più di ieri).

Secondo il RKI, in Germania il rischio di diffusione del Coronavirus sarebbe moderato. Poiché comunque la situazione è molto dinamica e in via di sviluppo a livello globale, sempre il RKI non esclude che possa cambiare anche a breve termine.

Intanto il Bundesministeriums für Gesundheit (il Ministero della Sanità tedesco) starebbe cercando di guadagnare tempo. Si starebbe lavorando in particolare:

  • all’individuazione dei gruppi a rischio
  • alla messa a punto di misure di protezione ad hoc
  • al potenziamento delle strutture di assistenza medica
  • all’esplorazione di farmaci antivirali e sviluppo di vaccini.

Stando al RKI, le autorità competenti sono intenzionate ad attuare una strategia di controllo graduale, adattiva.

Nel frattempo la vita si svolge abbastanza tranquillamente. Nonostante la continua crescita, i quarantotto casi registrati finora in Baviera, la regione dove vivo io, sembrano non influire sulla quotidianità delle persone. La gente circola come sempre, scuole e uffici sono aperti, i supermercati non sono stati presi d’assalto. Non si ha alcuna sensazione di un reale pericolo.

Se da una parte plaudo alle misure draconiane adottate a tutela dei cittadini dal governo del mio Paese, l’Italia, dall’altra non capisco perché in Germania si stia agendo in modo completamente diverso. Nella mia ignoranza non sono per niente persuasa, infatti, che l’Italia sia una specie di lazzaretto nel mezzo di un’Europa dove i contagi, a paragone, restano in contemporanea minimali.

Forse che in Germania e altrove non si è investigato abbastanza?

Forse che in Germania e altrove non si è voluto investigare abbastanza?

Nel mio piccolo, credo che in questo caso, nel caso cioè di questa epidemia di Coronavirus, avremmo forse avuto bisogno di più Europa, di una strategia di intervento condivisa. Forse questo avrebbe consentito di limitare i danni, anche quelli  economici, o per lo meno di ripartirli. Forse.

Essendo però io incompetente, tutto quello che posso fare e faccio è di seguire le semplici indicazioni precauzionali che ci sono state date senza farmi prendere dal panico (ed evitando di farmi prendere in giro).

A riprova delle distanze esistenti tra i paesi UE anche in contesti non emergenziali, voglio annotare però un altro recente avvenimento.

Un paio di settimane fa ho ricevuto una lettera dal locale Ufficio elettorale tedesco. In questa missiva mi veniva gentilmente chiesto se volevo prendere parte alle votazioni che si terranno il 15 marzo prossimo qui, nella città dove appunto vivo, per l’elezione del sindaco (Bürgermeister) e del consiglio comunale (Gemeinderat), nonché per l’elezione del Landrat e del Kreistag (presidente dell’unità amministrativa e dei suoi collaboratori) di questa parte della Franconia (Landkreis).

Dopo avere letto, ho voluto chiedere conferma di avere capito bene ai miei amici tedeschi. Perché io, qui in Germania, non sono residente. Ho soltanto un domicilio.

Sono rimasta di sasso: era davvero così.

Questa lettera mi ha fatto riflettere. Memore di quanto accade in Italia, delle lunghissime discussioni mai giunte a conclusione sui diritti di voto dei migranti, sullo ius soli eccetera, ho apprezzato la fattiva inclusione che questo atto comporta. Certo io non sono tedesca, ma poiché per una parte dell’anno vivo qui, mi è stato domandato (non imposto) se voglio contribuire alla costruzione del governo locale. Esattamente come lo si chiede, in questi giorni, a un qualsiasi cittadino tedesco, nato e residente qui da generazioni. Nella stessa missiva mi si domandava, inoltre, se preferissi votare al seggio o eventualmente per posta. Perché qui, qualora siano impossibilitati a recarsi al seggio per motivi di lavoro, vacanza, malattia o semplicemente per comodità, i cittadini possono esprimere le loro preferenze anche imbucando l’apposita busta nella cassetta postale del Municipio di competenza (Rathaus). E questo per tutte le differenti consultazioni elettorali.

Da non credere, vero?

Tanto più incredibile se penso alla fatica che proprio in questi giorni ho fatto per riuscire a ricevere via email dal mio comune di residenza in Italia le cartelle inerenti ai tributi locali, che vorrei riuscire a pagare entro le scadenze indicate anche quando sono all’estero.

E con quale risultato?

Su mia espressa richiesta via posta certificata (per legge sono infatti obbligata ad avere una pec), il mio comune di residenza mi ha risposto che no, non era possibile. Punto.

E con quali spiegazioni?

Nessuna.

Tuttavia, sempre in Italia, il comune di residenza di mia madre, di cui sono procuratrice legale, la scorsa estate non ha invece sollevato alcun problema a riguardo, e le cartelle esattoriali mi sono state puntualmente inviate online.

Emilia Romagna (io) e Veneto (mia madre): non stiamo nemmeno parlando di Europa, ma di Italia, di due regioni egualmente italiane.

Orientarsi nelle discrepanze della burocrazia del mio paese è diventato negli ultimi anni una sorta di lavoro part time, ancora più gravoso se ci si deve fare carico di persone con problemi di salute, disabilità o anziane, o tutte e tre le cose insieme.

Cito due fatti.

Il primo.

Da un funzionario di un ente pubblico al quale sono fortunosamente approdata dopo varie ricerche su Internet e svariate telefonate dall’estero, e al quale mi ero rivolta per cercare di ottenere il recapito online anche delle loro cartelle esattoriali, mi sono sentita rispondere più o meno così:

Cara Signora, lei ha ragione, ma si sta procedendo a una digitalizzazione graduale e non abbiamo ancora disposizioni ufficiali. Dovrebbe registrarsi all’Agenzia delle Entrate. Il fatto è che siamo un paese dove se non dichiari nulla, non hai nessun problema. Se però sei un contribuente onesto e sgarri di pochi Euro, ti sgamano [testuale] subito.

Il secondo.

Un altro responsabile di ente pubblico, a proposito di digitalizzazione, mi ha risposto più o meno così:

Cara Signora, lei ragione, ma stiamo cercando di uscire dal Medioevo [testuale]. Vedrò cosa posso fare per lei.

Nel primo caso ho ottenuto l’invio delle cartelle a titolo di favore personale.

Nel secondo sto ancora aspettando una risposta.

Ma c’è il Coronavirus. Se non ho risposte, dipenderà da questo. Chissà, forse rispondere in modo efficiente, efficace e omogeo potrebbe innescare nuovi focolai di contagio.

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