Angurie quadrate e gialle: comprate e mangiatene tutti

Ho l’opportunità di guardarmi indietro, al cosiddetto tempo che fu. Per esempio ricordo estati percorse da camioncini stipati di angurie, che la gente si affrettava a raggiungere nei punti di sosta per comperare a pochi centesimi quello che adesso al supermercato si vende anche a fette preconfezionate, ma a peso d’oro. Non si tratta solo di soldi. Era l’atmosfera a essere diversa, conviviale in un certo senso.

Con questo non credo nelle età dell’oro e non rimpiango nulla, non vivo nel passato. Il passato lo sfoglio come cartoline incollate su un album di ricordi. Vedute che riportano modi di vivere – luci, colori, odori – che oggi, in particolare nei contesti urbani, non esistono più. Probabilmente è sempre stato così per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di transitare lungo un arco temporale abbastanza esteso da superare almeno il mezzo secolo.

La peculiarità del mio arco temporale è però l’accelerazione del cambiamento, mai così repentino come negli ultimi trenta/cinquant’anni. Ci spostiamo in modo diverso, comunichiamo in modo diverso, mangiamo in modo diverso, consumiamo in modo diverso, viviamo in modo del tutto diverso… perfino le angurie sono cambiate: sono diverse, direi multitasking. Mi racconta mia figlia che ora si coltivano addirittura quadrate, perfettamente impilabili, sulla scia di una moda giapponese di qualche anno fa, e al supermercato ho avuto io stessa la sorpresa di acquistarne e mangiarne una, sempre originaria del Sol Levante, che al suo interno era gialla, il giallo vivo dei limoni. Peraltro ottima. Del resto, angurie a parte, siamo in quell’era che l’ingegnere e meteorologo Paul J. Crutzen (Nobel per la Chimica nel 1995) ha battezzato ufficialmente nel 2000 Antropocene, proprio per sottolineare le modificazioni prodotte dalle attività umane a livello globale. Dal punto di vista tecnico, la definizione dell’esimio scienziato non è mondialmente accettata, in quanto le ere geologiche si misurano in termini di decine o centinaia di milioni di anni e con criteri anche questi non sempre condivisi da tutti gli esperti. Tuttavia il termine Antropocene è ormai entrato nell’uso comune, se non altro per l’immediatezza di ciò che vuole indicare: il nostro impatto sul pianeta.

Siamo in troppi, ho già avuto modo di scriverlo. E il pianeta mi fa l’effetto di una Smart, dove ci stai comodo e viaggi bene se la usi in città, e se la usi al massimo in due senza sognarti di trasportare gli scatoloni del mobiletto IKEA. Quello che voglio dire, e che mi sembra sempre più lapalissiano, è che pur con tutte le strategie di transizione ecologica – che vanno attuate, sia chiaro, al netto della corruzione planetaria – il sistema è destinato comunque a saltare, se lo intendiamo come è stato fin qui inteso: produzione e consumo.

Una delle tesi che più mi hanno angosciato e affascinato negli scritti di Thedore John Kaczynski, alias Unabomber, è l’incontrollabilità dello sviluppo tecnologico della nostra/e società globalizzata/e, e la piega che potrebbe prendere.

Nel suo “Rivoluzione antitecnologica – Perché e come” (Ortica Ed., 2021), Kaczynski argomenta e offre riflessioni che personalmente ho trovato di straordinaria attualità.

In una delle sue pagine scrive:

Anche se il sistema tecnologico mondiale ha ancora bisogno di un gran numero di persone, ora ci sono più esseri umani superflui di quanti ce ne siano stati in passato poiché la tecnologia ha rimpiazzato gli uomini in molti lavori e interessa anche occupazioni che precedentemente erano ritenute esclusivo appannaggio dell’uomo. Di conseguenza, sotto la pressione della competizione economica, i sistemi dominanti mondiali stanno già permettendo all’indifferenza di insinuarsi nel trattamento degli individui superflui. Negli Stati Uniti e in Europa, pensioni e benefici per i pensionati, disabili, disoccupati e altre persone non produttive vengono ridotti; almeno negli Stati Uniti, la povertà è in aumento; ciò sta a indicare la tendenza generale del futuro, anche se ci saranno senza dubbio degli alti e bassi. (Pag. 114 – 115.)

Unabomber era un criminale, un terrorista, ma ricordiamoci che è stato anche un genio della matematica che a venticinque anni aveva già frequentato Harvard, l’Università del Michigan, fino a diventare professore assistente di matematica alla UC-Berkeley. Insomma è stato quello che mio nonno, nella sua semplicità, avrebbe definito un toxàt anca masa svéjo.

Per tornare alla pressione demografica sul pianeta, al sistema produzione-consumo, all’Antropocene, un gran caos per il quale ciascuno, dai politicanti agli avventori dei bar di paese, ostenta la sua ricetta, questa faccenda/mantra del fare figli per sostenere le pensioni e l’economia mi pare esemplificare molto bene la concezione attuale dell’antropos: un mezzo per. Non si mette in discussione il modello economico e sociale, non si entra nei termini di un’equa distribuzione delle ricchezze, di una visione a lungo termine per preservare la terra che abitiamo, sia mai, si preferisce ridurre l’antropos a mezzo svuotato di senso e sensi. E l’antropos accoglie e si convince e ingoia tutte le polpette avvelenate scambiandole per fette di tiramisù.

Sempre Kaczynski, questa volta ne “Il manifesto di Unabomber – La società industriale e il suo futuro” (Ed. Passaggio al bosco, 2022), a pag. 141 annota:

La maggior parte delle persone detesta i conflitti psicologici. Per tale ragione, essi evitano accuratamente di far posare il loro pensiero su questioni sociali di una certa complessità. E preferiscono che tali temi vengano loro presentati in una veste semplice e manichea: questo è buono e quest’altro è cattivo, punto e basta.

Sembra proprio così. Poiché la complessità impegna e rischia di spaventare, meglio ancorarsi a una posizione, qualcosa di basico, comprensibile, alla portata. Come quel cliente della cartoleria vicino a casa mia che qualche giorno fa, sproloquiando di tasse, di punto in bianco ha tirato fuori Mussolini. Che cosa c’entrasse, lo sapeva solo lui, ma tant’è.

Volendo osare andare oltre e alzare il tiro in termini di complessità, libertà di pensiero e sviluppo tecnologico, io che non ho ricette, do la parola ancora una volta al “terrorista criminale” Kaczynski (pag. 110 del “Manifesto”):

Come si può dunque pensare di risolvere l’assai più difficile e insidioso enigma di una possibile conciliazione fra libertà e tecnologia? La tecnologia presenta palesi vantaggi materiali, laddove la libertà è un concetto astratto, al quale persone diverse attribuiscono diversi significati, e la cui perdita è agevolmente oscurata dalle chiacchiere e dalla propaganda.

Già.

P.S. Foto di copertina.

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