L’olocausto della maternità

Nel suo libro autobiografico, Una donna, la scrittrice, poetessa e giornalista Sibilla Aleramo utilizzò la parola olocausto in riferimento alla maternità.

Sebbene dalla fine della seconda guerra mondiale il termine “olocausto” sia comunemente – e impropriamente – usato in luogo di “shoah” per indicare lo sterminio del popolo ebraico, nel romanzo della Aleramo il vocabolo va contestualizzato nel senso proprio, di una «forma di sacrificio praticata nell’antichità […] in cui la vittima veniva interamente bruciata» (Treccani) – Una donna fu infatti pubblicato per la prima volta nel 1906.

Scriveva la Aleramo:

… Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio.

Sono passati 118 anni, più di un secolo. Oggi la maternità è ancora un olocausto?

In una indagine Legacoop – Ipsos sulle ragioni della denatalità nel nostro Paese, pubblicata il 15 maggio 2023 dal “Sole 24 Ore” a firma di Andrea Carli, tra i vari dati riportati si leggeva che per quanto atteneva alla possibilità di diventare madre, l’80% delle donne intervistate temeva per il proprio posto di lavoro. Nel complesso groviglio di motivazioni economiche e socio-culturali che hanno causato il minimo storico della natalità italiana, questa percentuale salta agli occhi.

Si tratta di un valore positivo o negativo?

Se l’autonomia economica è la base che consente di autodeterminarsi, di poter scegliere liberamente, potrebbe sembrare che la maggior parte delle donne intervistate abbia acquisito consapevolezza dell’importanza di guadagnare in proprio. In realtà, che una donna lavori è attualmente più che mai necessario, visto il costo della vita e la precarietà delle offerte occupazionali. Ma anche a voler tralasciare la realtà e a voler pensare ottimisticamente che le donne puntino alla loro autodeterminazione, il fatto è che molto spesso sono comunque poste di fronte a un aut aut: o lavori o diventi madre. O, in alternativa, il compromesso: quello di fare un solo figlio e in età più avanzata rispetto a quanto non si facesse anche solo trent’anni fa. Il che non sembra esattamente andare nella direzione di una libera scelta.

Il 21 febbraio scorso si è svolto a Roma il convegno Analisi dei divari di genere del mercato del lavoro e nel sistema previdenziale, organizzato dal CIV (Consiglio di Indirizzo e Vigilanza) dell’INPS.

È impressionante vedere in dettaglio i dati che continuano a interessare la presenza femminile nel mondo del lavoro italiano, nel settore privato e in quello pubblico, constatare il gap occupazionale tra uomini e donne e tra la situazione italiana e quella europea, la disparità salariale, l’utilizzo del part-time e dei contratti a tempo determinato, la frattura esistente tra Nord e Sud. La situazione, per le donne, è tutt’altro che rosea.

Ma questa non è una novità, anche se si continua a tirare innanzi limitandosi a qualche manovrina in sede di Legge di Bilancio.

Il “problema”, invece, è strutturale.

Fermo restando che per diverse ragioni trovo deprecabile l’assunto della necessità di incrementare la natalità per pagare le pensioni, mi colpisce come, anche dal solo punto di vista economico, la maternità continui a essere effettivamente un “olocausto” per le donne.

Perché, infatti, le donne dovrebbero “produrre” figli per pagare le pensioni? È questa l’idea che si continua ad avere del corpo femminile, delle donne? È questa l’idea che si ha dei nascituri?

E perché poi dovrebbero farlo quando, oltretutto, la situazione lavorativa ed economica, e la disponibilità di servizi, per la stragrande maggioranza di esse seguita a non avere un assetto adeguato, per usare un eufemismo?

Le economie di guerra chiedevano alle donne figli per la patria e adesso la nostra economia li richiede alle donne per le pensioni.

P.S. In copertina Louise Bourgeois, Maman, 1999, fonte de 2003. © The Easton Foundation. Photo: MBAC. Maman è la scultura-omaggio dell’artista francese alla maternità, installata in modo permanente in otto esemplari in altrettante parti del mondo.

Cit. Sibilla Aleramo, Una donna, in Biblioteca Narratori Feltrinelli, 1982.

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